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Da Cesare a Churchill
Alberto Cavaliere (1897-1967)


foto del poetadedica autografata dal poeta


 

 


PRESENTAZIONE

Raccontatore di personali vicende ed esperienze, bar­baramente soffocato da un poeta troppo noto. Ma del primo che cosa si può dire che già non sappiano tutti? Che è sempre scintillante, fluido, spiritoso? Cose vecchie. Per dir tutto basta una sola parola:
Cavaliere.
(Qui scommetto che se la presentazione dovessi farla tu non potresti rinunziare a questo giuoco di parole: c'era da aspettarselo, dato il nome, che Ca­valiere avrebbe finito col fare un poema cavallere­sco. Ma io non oso. Anche perché nel caso tuo sa­rebbe un poema cavalieresco.)
Abbracci.
ACHILLE CAMPANILE




I

ORIGINI

 

Si dice che nell'èra paleolitica

fosse l'Anglia attaccata al Continente:

sarebbe questa una faccenda critica,

al giorno d'oggi, e assai compromettente;

ma in quell'era tranquilla la politica

non funestava ancor l'umana gente,

e ancor s'accontentava, il mondo gretto,

d'uno «spazio vitale» assai ristretto.

 

Comunque, anche se vera, quella tesi

si riferisce a tempi assai lontani;

io so che, per fortuna (degl'Inglesi,

s'intende, e per disgrazia dei Germani),

dacché i fatti del mondo son palesi

e controllati dai vivi occhi umani,

è l'Inghilterra un'isola: ma spesso

d'essere invasa le toccò lo stesso.

 

A quanto afferma una persona seria,

alla fine dell'epoca glaciale

v'approdò prima una tribù d'Iberia,

che arditamente attraversò il Canale

e in quell'isola, ancor nuda e in miseria,

condusse il bue, la pecora e il maiale,

tre bestie che nel nostro Continente

eran diffuse già discretamente.

Fu cinque o seicent'anni avanti Cristo

che dalla Gallia, poi, giunsero i Celti,

mangiatori di porco, e in modo tristo

gl'Iberici di là furon divelti.

Quei Celtii - informa Cesare, che ha visto -

­eran uomini audaci, agili e svelti,

che vivevan di pesca e di rapine

e avevan delle usanze peregrine.

 

Se taluno di lor veniva al mondo

con brune chiome, ritenuto estraneo

(figlio, chi sa, di qualche vagabondo

giunto lassù dal Mar Mediterraneo),

tingersi il pèl doveva in rosso o in biondo

con le carote o qualche succedaneo

(poiché in quei tempi l'acqua ossigenata,

probabilmente, ancor non era nata).

 

Per mezzo d'indelebili misture,

note soltanto ad iniziati saggi,

s'imbiancavan la pelle, ch'era pure

segnata dai più strani tatuaggi;

e quando, con la spada e con la scure,

sbarcarono i Romani in quei paraggi

e quei buffi pupazzi ebbero vinti,

li chiamarono Picti, ossia «dipinti ».

 

Pian piano, poi, nei secoli seguenti

smisero anch'essi l'uso del colore

e, in generale, i loro discendenti

non si dipingon più (non le signore:

chè queste, in tutti i cinque continenti,

come sapete, siano bionde o more,

amano ancora in quest'età felice

darsi sul volto un palmo di vernice)

 

Erano i Druidi i loro sacerdoti

e praticavan sacrifici umani;

ma in questo i modernissimi nipoti,

non feticisti più, bensì anglicani,

per quanto ad altri iddii siano devoti,

imitan tuttavia gli avi lontani,

sacrificando nelle loro guerre

Indi, Africani e genti d'altre terre.

 

II

L'ARRIVO DI CESARE

 

Mentre Cesare in Gallia si guadagna

o sottomette le tribù ribelli

con una memorabile, campagna,

ai Belgi e ad altri popoli fratelli

mandano aiuti i Celti di Bretagna,

provocando in tal modo il casus belli,

poichè Roma non tollera, indignata,

che la neutralità venga violata.

 

Dare ai Celti un castigo e metter piede

su quelle terre nordiche: lontano

favoleggiato mondo, ove si crede.

vi sian perle e tesori a tutto spiano ...

Non ci ripensa su, tempo non chiede,

chè non sa indugi il condottier romano;

con due legioni di soldati scelti,

si mette in mare e muove contro i Celti.

 

L'estate andava ormai verso la fine

e le giornate diventavan corte;

le maree dell'autunno eran vicine,

il «generale» Nebbia era alle porte;

se ancor non esistevano le mine,

la borea c'era, che soffiava forte;

ma, nonostante il vento e le maree,

giungono a Dover cento e più galee.

 

Il popolo dei Celti aveva avuto

da tempo già sentore dell'impresa

e, offerto invano a Cesare un tributo,

s'accinge disperato alla difesa.

Qualche mercante gallico, avveduto,

consiglia ai capi subito la resa,

ma, sospettato d'essere al comando

della quinta colonna, è messo al bando.

 

Scendono a riva i Celti battaglieri

con quattromila e cinquecento traini.

I Romani, benché senza genieri

e ingombrati dall'armi e dagli zaini,

raggiungono (protetti dagli arcieri

delle gale e) la costa. E, come daini,

i Celti se la filano: scomparsi! I

(Non è ancor nato il termine «sganciarsi »).

 

Cesare avanza. I traini dei nemici

si sottraggon veloci alla battaglia,

nei pochi borghi grami ed infelici

bruciando le casupole di paglia.

I Romani si nutron di radici,

mancan di alloggi, il freddo li attanaglia.

E dov'é l'oro in quell'ingrata terra?

(Non c'era ancor la Banca d'Inghilterra ... )

 

Cesare ai capi, allor, mandò messaggi,

con cui la pace a buon mercato offriva;

si recò poi nell'est e in quei paraggi

minutamente ispezionò la riva;

indi, in Gallia tornò con doni e ostaggi

da quella spedizione informativa,

fra sé, però, dicendo a quei signori:

«Ci rivedremo alla stagion dei fiori... ».

 

Tornò con un'armata assai più grossa,

sei mesi dopo, di Romani e Galli,

mostrando, senza gru, come si possa

sbarcar con catapulte, armi e cavalli,

mentre le tribù celte alla riscossa

discendono dai borghi e dalle valli,

e, rinunciando ad ogni interna bega,

dànno il comando a un unico stratega.

 

III

LA CONQUISTA ROMANA

 

Egli è Cassivellàuno: ardito e forte,

domina i capi e se li rende ligi;

poi sprona i Celti ad affrontar la morte

schierandosi a difesa oltre il Tamigi.

Cesare, intanto, con manovre accorte

tra i capi stessi provoca litigi,

cosicché il blocco, prossimo al cimento,

non sembra dare troppo affidamento.

 

Cassivellàuno batte in ritirata,

né annunzia una vittoria ogni quattr'ore,

poiché la radio ancor non era nata,

benché già la bugia fosse in onore;

quando vede, però, la malparata,

si decide a trattar col vincitore,

che con parola semplice e concisa

al dipinto guerrier parla in tal guisa:

 

« Cassivellàuno, ho sottomesso i Galli,

di te più forti: con le mie legioni,

montate su magnifici cavalli,

presto farei di te pochi bocconi.

lo non t'impongo nulla: i tuoi vassalli

vogliono ancor dipingersi? Padroni!

Però, disarma, al popolo romano

paga un tributo, ed eccoti la mano! ».

 

Cesare, accanto al barbaro tapino,

era il leone che minaccia il topo;

ma, ricco già di gloria e di bottino,

tornar subito a Roma era il suo scopo.

Cassivellàuno, che capì il latino,

si sottomise. (Duemil'anni dopo,

Churchill invece, molto più ostinato,

non vorrà sottomettersi. Peccato!).

 

Sfilano in Roma, a perdita di vista,

Celti in catene, in lenta processione.

Deluso, tuttavia: « Magra conquista!»

esclama l'avvocato Cicerone.

«Fra questi schiavi, non un musicista,

non un atleta, ahimé, .non un buffone! »

(Strano, perché buffoni, un po' più tardi,

ve ne saran pur lì, tosti e gagliardi.).

 

Ma i «partigiani », nelle terre annesse,

non fan che organizzar rivolte armate;

di tutte le regioni sottomesse,

è 1'Anglia fra le meno rassegnate:

lungi dal mantener le sue promesse,

non vuoI pagare più, nemmeno a rate,

mentre il Senato, ognor più risoluto,

chiede che i Celti paghino il tributo.

 

E Claudio imperator, dopo anni molti,

cinquantamila fanti e cavalieri

sul Tamigi mandò: furono accolti

da spaventose torme di guerrieri,

fra cui le donne, coi capelli sciolti,

cacciavan urli ed agitavan ceri,

e i sacerdoti, in mezzo al tramestio,

alzavan preci a qualche strano dio.

 

Chi può descriver la carneficina

che ne seguiva? A farvene un'idea,

vi basti dir che lungo la marina

rosse eran l'acque! E in tragica odissea

gli ultimi Celti (morta la regina

che li guidava, a nome Boadicea)

cedendo agli invasori, a perdifiato

scampaion verso il Galles desolato.

 

IV

IL DOMINIO DI ROMA

 

Con la solita sua magnificenza,

vi costruiva il vincitor romano

strade, ponti, acquedotti in tutta urgenza,

nonché vaste città: sappia il profano

che quel barbaro chester, desinenza

di varie città inglesi, un dì lontano,

era il latino castra (accampamento),

storpiato poi dall'Anglo a suo talento.

 

Nasce Londinium con l'immenso porto;

sorgon palazzi sulla nuda rena,

con bagno, acqua corrente, ogni conforto

(gl'Inglesi aggiungeranno ... la catena);

e ponti enormi: il Tower Bridge è sorto

su quello antico, senza alcuna pena.

C'è una pietra romana in ogni buca

scavata dalle bombe degli «Stuka ».

 

In tutte le città, rapidamente,

sorgono il tempio, il foro e, soprattutto;

le terme: acqua e sapone (è sorprendente,

ma un celta, dopo il bagno, è meno brutto).

E fin d'allora quella strana gente,

a cui la civiltà dava un costrutto,

aveva, senza alcuna tracotanza,

un'aria di buon gusto e d'eleganza.

 

Con molto tatto, Roma a sé guadagna

le celtiche tribù fiere e scontrose;

vengon create in tutta la Bretagna

colonie idroterapiche famose,

e pei ricchi Romani è una cuccagna,

trascorrere lassù le estati afose:

Bath (Aquae Sulis), che Marziale loda,

nel secolo secondo era alla moda.

 

Le celte indossan già come conviene

manti romani e «palle)} civettuole:

Agricola pro console sostiene

che son delle simpatiche figliole.

E i veterani se la passan bene,

benché di rado vi si veda il sole,

e nebbia e pioggia siano abituali,

pur non ancor promosse... generali.

 

Ma, se nel Sud e al centro gli abitanti

divengono romani, ossia civili,

vivon nel Nord i Pitti ed i Briganti,

che ad ogni civiltà mostransi ostili:

soprattutto questi ultimi, furfanti,

scendon dai monti e predano gli ovili

(molti d'essi, più tardi, al Sud e al Nord,

riceveranno il titolo di lord).

 

Ragion per cui, nell'anno centoventi,

Elio Adriano, che in quel tempo impera,

va in persona lassù, con forze ingenti,

per liquidar quei musi da galera;

ma troppo impervio è il luogo, e immantinenti

egli alza un vallo, lungo la frontiera,

che alle antiche razzie chiude ogni strada,

tenendo i Pitti ed i Briganti a bada.

 

 

Fu lui che di galere e di vascelli

volle sul mare una potente flotta,

e in terra, contro i Barbari ribelli,

lungo tutti i confini, ininterrotta

una linea di forti e di castelli,

che dopo ben tre secoli di lotta,

non dopo un mese al massimo crollò

(come farà la linea Maginot!).

 

V

FINE DELL'INGHILTERRA ROMANA

 

Già fin dal terzo secolo, il flagello

d'una crisi economica e sociale,

che al grande impero scaverà l'avello,

imperversa sul mondo: è naturale,

il mondo, dopo tutto, è sempre quello,

e la famosa crisi universale,

per la qual così vivo oggi è il lamento,

non l'ha inventata il nostro Novecento.

 

Ma la Bretagna è un'isola: essa vive

dei suoi commerci; i Barbari predoni

non possono approdar su quelle rive,

per cui la pace regna, e le legioni

rimangon per due secoli inattive,

i soldati diventano coloni

ed emulan gl'indigeni, entusiasti

(se non dei cinque ancor) dei quattro pasti.

 

Dalla lontana Partica alla Spagna,

sorge dovunque qualche usurpatore;

persino le legioni di Bretagna,

che motivi non han di malumore,

perché più grande ancor sia la cuccagna,

han proclamato un loro imperatore:

il generale Massimo, che intende

marciar su Roma e lì piantar le tende.

 

Bravo stratega, ardito e intraprendente,

lascia poche coorti lungo il Vallo,

parte e sconfigge clamorosamente

l'imperator Graziano in suolo gallo;

ma lo doma, accorrendo da Orïente,

l'imperator Teodosio e a quel vassallo

ribelle e usurpator taglia la testa,

dov'era nata quell'idea funesta.

 

Grande è il massacro: non una legione,

non un soldato dall'impresa insana

torna in Bretagna; e quando Stilicone,

ultimo eroe di Roma, in sovrumana

difesa contro i Vandali s'oppone

e chiede aiuti all'isola romana,

dalle remote abbandonate sponde

neppur l'eco,ahimé,più gli risponde!

 

I Pitti, che il fattacio hanno saputo,

pù non temendo chi li fermi e sgomini,

varcano il Vallo; un capo inavveduto

(siamo nell'anno quattrocento Domini)

fa venir gli Angli e i Sassoni in aiuto

dal continente: fior di galantuomini,

trovan costoro il luogo molto bello

e contro gli assuntori apron macello.

 

Dando l'esempio ai tardi pronipoti,

che un dì predando correranno i mari,

devastan tutto, come fanno i Goti,

brucian città, villaggi e casolari;

traggon le donne schiave, e i sacerdoti

son trucidati innanzi ai loro altari:

pochi fuggiaschi scampan nell'Irlanda,

che ancora all'invasor moccoli manda.

 

Più tardi, il santo vescovo Germano

chiama a raccolta i «figli di Gesù »,

sconfiggendo gl'intrusi; anche un sovrano

celta, nel sesto secolo, re Artù,

dà loro alcune nespole, ma invano:

Sassoni ed Angli non andran via più.

Poi, di sloggiarli spererà qualcuno ...

nel millenovecentoquarantuno.

 

VI

GLI ANGELI E I SASSONI

 

Capelli color biondo-maionese,

occhi turchini, stomachi voraci;

agili per lo più (le Pance obese

verranno dopo), indomiti, predaci,

vendicativi, nelle loro imprese

freddamente metodici e tenaci:

tali eran gli Angli e i Sassoni fioccati

su quelle rive, e tali son restati.

 

Le donne di quei Barbari crudeli

son miti, invece, sottomesse, caste,

ottime mogli, al coniuge fedeli;

ma è chiaro che così non son rimaste

(non lì soltanto:sotto tutti i cieli;

perché se già da voi non lo notaste,

qual che ne sia la tinta o la favella,

la razza delle donne è sempre quella).

 

Nei sassoni e negli Angli, alla costanza

e ad altre qualità (scrive un cronista)

s'aggiunge una più grande rinomanza,

che altrove sembra ormai più non esista:

è la temerità; poca importanza

danno alla vita, han sete di conquista,

aman la guerra, (adesso, assai più scaltri,

la guerra,invece,la fan fare agli altri).

 

Provenienti dall'algido squallore,

dal deserto stupor delle natie

steppe, portan quei nomadi nel cuore

l'arcano senso delle eterne vie;

ogni guerriero è insieme un sognatore

delle malate accese fantasie;

e un giorno nasceran da quei guerrieri

sommi poeti e grandi avventurieri.

 

invasa la Bretagna ormai deserta,

brucian dei Celti e dei Romani invisi

are palazzi e, sotto una coperta

ruvida,a costo di pigliar la tisi,

preferiscon dormire all'aria aperta,

temendo l'ombre dei nemici uccisi.

Bevono, prima d'affrontar dei rischi,

misture forti (poi berranno il whisky),

 

Son ben organizzati fin da allora;

ogni tribù che approda ha un proprio re;

vi son sei regni nel seicento ancora,

nel settecento ne rimangon tre;

nell'ottocento (e a Londra ha sua dimora)

v'è un solo re britannico, finché,

in tutto il mondo, se il progresso fila,

non vi saran più re ... verso il Duemila.

 

Secondo un'antichissima struttura,

il regno suddividesi in contee,

c'è un Consiglio dei Saggi che si cura,

generalmente in pubbliche assemblee,

della giustizia: una giustizia dura,

amministrata in base a poche idee:

alla persona in un reato incorsa

tagliar la testa o, taglieggiar la borsa.

 

A ognuno è attribuito un suo valore:

cento scellini o più, comunemente;

e, s'egli è ucciso, il barbaro uccisore

è tenuto a pagar l'equivalente.

Ma il più punito, il crimine peggiore

è la rapina armata: è sorprendente!

Io non mi spiego simili pretese:

tante colonie, allor, come le han prese?

 

 

VII

LA CONVERSIONE AL CRISTIANESIMO

 

Giunti in Bretagna, i Barbari devoti

innalzan nuovi templi ai propri numi;

ma questi han sempre meno sacerdoti:

legati ai patri boschi, ai patrii fiumi,

ora,in quei lidi incogniti e remoti

(altri aspetti,altri tipi, altri costumi)

si sentono in esilio...Amici miei,

han le loro tristezze anche gli dei!

 

Son bravi iddii,ch'esaltano il dovere

e per gli onesti e i buoni han dei riguardi:

le pieValchirie, alate messaggere,

portano in cielo i morti eroi gagliardi,

mentre il dio Thor, severo giustiziere,

colpisce i traditori ed i bugiardi

( sembra che questi invece al giorno d'oggi,

trovin presso gli dei potenti appoggi...).

 

Già San Patrizio aveva convertiti

i Celti della Scozia e dell'Irlanda:

c'erano già dei monaci eruditi,

specializzati nella propaganda;

e,visitando i più lontani siti,

la nuda terra avendo per locanda

davan tutto che avevano ai pezzenti,

meravigliando quelle avare genti.

 

A Roma, un gran pontefice, frattanto,

s'asside sulla cattedra di Piero:

è San Gregorio Magno, il quale accanto

ha uomini di fede e di pensiero,

e sa che Roma ancor, pur senza il manto

del prodigioso e sterminato impero,

farà sentir la sua possente voce

non con la spada più, ma con la croce.

 

Gregorio, un giorno, sceso dal suo trono,

girando pel mercato degli schiavi,

vede dei biondi giovani: « Chi sono?»

chiede. « Degli Angli ». « Candidi, soavi,

non Angli, angeli» dice... (O santo, o buono

papa Gregorio, forse, esageravi!)

E vuole che quel popolo superbo

sia convertito anch'esso al santo Verbo.

 

Spedisce in Anglia il vescovo Agostino,

accompagnato da quaranta frati,

che compunti si mettono in cammino,

sospirando così: « Siamo spacciati!».

Ma ancor ha tale un fascino divino

il gran nome di Roma, che i mitrati

ambasciatori sono,in Gran Bretagna,

dal re del Kent accolti in pompa magna.

 

Padre Agostino scrive al papa e dice

come sono quegli uomini: robusti,

rozzi, talvolta duri di cervice,

tuttavia non sleali e non ingiusti;

strani costumi: il vedovo infelice

sposa la propria suocera (che gusti!).

E in quella stessa lettera conclude

che ha convertita quella gente rude.

 

Ribelli,tuttavia, gli dan pensiero

I preti celti, ai quali il papa è inviso;

ma quando spiega, il missionario austero,

a quella gente di diverso avviso,

che il papa in terra è il successor di Piero

e che le chiavi ha lui del paradiso,

dove ricchezze trovansi ed alcolici,

s'affrettan tutti a diventar cattolici.

 

VIII

LE INVASIONI DANESI - RE ALFREDO

 

Nel settecentosessantasette,in maggio,

s'aveva in Inghilterra il primo avviso:

tre navi, con a bordo un equipaggio

di trecento guerrieri, all'improvviso,

approdan sulla costa, in un villaggio;

Il capo va a riceverli ed è ucciso.

Una spietata rapida razzia,

e i tre vascelli se ne tornan via.

 

Dopo qualche anno, sempre più frequenti

diventan quelle facili incursioni:

di tanto in tanto, armati fino ai denti,

sbarcano in Anglia barbari predoni,

saccheggiano i castelli ed i conventi,

massacraan servi, monaci e baroni.

Terrorizzati, inermi e disuniti,

gli Angli non san far fronte a quegli arditi.

 

Chi san costoro? Sono dei «pagani »,

abitatori di un'oscura terra:

il «paese dei ladri », ossia dei «Dani »,

situato di fronte all'Inghilterra.

Son prodi e astuti, forti e disumani,

aman la pesca ed amano la guerra;

e dalla Scozia alla lontana Irlanda

piovon le busse come Dio le manda.

 

A poco a poco cresce l'importanza

delle flotte nemiche, e i cittadini

aumentan sempre più la vigilanza

lungo le coste, s'armano d'uncini,

di picche, d'alabarde: han la speranza

di ricacciar così quegli assassini.

Il bravo Alfredo, re da circa un anno,

conia il motto fatal: «Non passeranno ».

 

E' un re che da natura ha avuto in dono

la saggezza, l'audacia ed il talento:

scrive libri, fa leggi, è onesto e buono

(per un sovrano è un vero avvenimento!).

Ma, dopo un anno ch'egli è asceso al trono,

cade il suo regno in preda allo sgomento:

quei masnadieri approdano in Irlanda,

guidati da un feroce capobanda.

 

E' il danese Guthrùn, che i suoi pirati

conduce quindi in Anglia e, risoluto,

in breve ne conquista i sette stati,

movendo contro il Wessex; senza aiuto,

Alfredo, sospirando: «Son passati! »,

per ottener la pace offre un tributo.

Ma l'appetito, ahimé, viene mangiando:

Guthrùn accetta e poi risnuda il brando.

 

Cerca rifugio il re su un isolotto,

fra le ingrate paludi e la boscaglia,

dove,però, lavora sotto sotto

alla riscossa: è il sogno che l'abbaglia

Dopo un inverno, il bravo giovinotto

Torna nel regno, incuora alla battaglia

Le truppe male armate e poco esperte,

e sconfigge i Danesi; e li converte.

 

Certo,un gran capo ha pur tanta importanza,

giovando con l'esempio incitatore;

comunque, gli Angli, in quella circostanza,

si dimostraron gente di valore,

battendosi con fede e con costanza,

invee di trescar col vincitore,

come ,seguendo i loro corifei,

faran molto più in là, certi europei.

 

X

DA RE ALFREDO A RE CANUTO

 

Alfredo fu un magnifico sovrano

e diede agli Angli un saggio ordinamento.

Fra i successori suoi, fu re Atelstano

che l'opra condusse a compimento

e tutta l'Inghilterra ebbe in sua mano

ma verso la metà del novecento

(il novecento è un secolo fatale)

le cose nuovamente andaron male.

 

Nel corso di quel secolo, i pirati

riprendono i viaggi d'avventura;

giungon prima, qua e là, pochi isolati,

dopo arriva un'armata addirittura:

fiacco e incapace, contro quei dannati,

re Etelredo, ubbidendo alla paura,

ai quattrini ricorre anziché all'armi,

spendendo molto male i suoi risparmi.

 

Incoraggiati, i perfidi Danesi

ritornano alla carica, ed Edmondo,

figliuolo d'Etelredo, in pochi mesi

perde il regno e la vita. Tremebondo,

il Consiglio dei Saggi londinesi

dà lo scettro a Canuto (invece, è biondo):

della flotta nemica egli è navarca

e fratello del re di Danimarca.

 

E' come se, nell'ultimo conflitto,

il governo di Londra ad un tedesco

avesse offerto il trono! ... Or quell'editto,

che a prima vista può sembrar grottesco,

fu un bene per il popolo sconfitto:

perché quell'uomo energico e manesco,

sovrano imposto ad una inerme folla,

diventa inglese fino alle midolla.

 

E' un bel ragazzo, con barbetta a punta,

che conterà sì e no ventiquattr'anni,

ma è molto astuto e, la corona assunta,

ai cittadini risarcisce i danni;

ha pure un bello stomaco, per giunta,

se, per riuscir simpatico ai Britanni,

prende in moglie, lui giovane com'é,

la vecchia madre del defunto re.

 

Sovrano fra i più saggi ed i migliori,

per quanto un po' crudele e autoritario,

fondendo insieme i vinti e i vincitori,

si mostra giusto più del necessario;

condanna a morte tutti quei signori

c'hanno tradito Edmondo, il suo avversario:

«Come potrei fidarmi d'un soldato

Che ha tradito il suo re? Venga impiccato! ».

 

Licenzia, inoltre, il grosso della flotta,

non tenendo per sè che poche navi;

premia tutti color che nella lotta

contro i suoi sgherri si mostraron bravi;

apprende, approva e per se stesso adotta

le leggi che gl'Inglesi ebber dagli avi;

si fa cristiano e tutti i giorni al Duomo

va a sentir messa: insomma è un galantuomo.

 

Per umiltà non porta la corona,

né vuol più servi; la sua mensa è parca;

sicché il paese, là dove il yes suona,

porta alle stelle il giovane monarca.

Ma il bellico furor non l'abbandona

e divenuto re di Danimarca,

conquista la Norvegia: è uno straniero

che dà agli inglesi il gusto dell'impero.

 

X

EDOARDO IL CONFESSORE I NORMANNI

 

Diviso fra i tre figli di Canuto,

l'impero, oggetto di svariate brame,

si sfascia fatalmente in un minuto,

com'era nato. L'anglico reame

era toccato in sorte al meno astuto:

al figlio Aroldo, un giovane salame;

ch'egli è un salame è tale l'evidenza,

che i Saggi lo depongono d'urgenza.

 

E danno il trono al figlio d'Etelredo,

un Edoardo, detto «il Confessore»

per via che tutto il dì recita il Credo

ed altre preci in lode del Signore.

Egli non ha lo spirito d'Alfredo,

né di Canuto il senno ed il valore:

è buono buono, semplice, modesto;

tartaglia un poco come Giorgio sesto.

 

E' un uomo così pio, che fa persino

voto di castità; ma ciò non toglie

che il furbo consiglier conte Godvino

gli offra la figlia in sposa: il re l'accoglie,

però non fa nemmeno uno spuntino,

l'astemio sire, con l'afflitta moglie;

per cui, privo com'è di discendenti,

promette il trono a tutti i suoi parenti.

 

Intanto, furoreggiano i Normanni:

dediti anch'essi alla pirateria,

dopo crudeli stragi e atroci danni,

han fondato un ducato in Normandìa.

Eran danesi un dì, ma poi, con gli anni,

si son francesizzati: tuttavia,

pieni ancora di fede e di bravura,

hanno sete di gloria e d'avventura.

 

Son già molto temuti intorno al mille;

anno nel quale i popoli (secondo

le divine scritture e le sibille)

avrebbero assistito al finimondo:

invece, al nuovo secolo tranquille

si svegliaron le turbe e a cuor giocondo.

(Novecent'anni dopo, ad un dipresso,

dirà l'Europa: - Il finimondo è adesso!. .. )

 

Duca normanno è un giovane gagliardo,

Guglielmo, ch'è un figliuolo adulterino

del famoso Roberto, onde il « Bastardo »

lo chiama sottovoce il popolino.

Un giorno, va a far visita a Edoardo

e al mite « Confessor » dà del cugino,

che gli promette il trono di buon grado,

come suol far con tutto il parentado.

 

Ma, non appena il re va sottoterra,

Godvino, il furbo genero, intrigando,

fa proclamar sovrano d'Inghilterra

il proprio figlio Aroldo. Protestando, .

Guglielmo insorge e gli dichiara guerra,

appoggiato dal monaco Ildebrando:

« Morte ad Aroldo usurpatore! Il re

- grida - quel trono l'ha promesso a me! ».

 

Raduna i suoi baroni il gran Normann,

terre promette lor, soldi, castelli,

donne, gazzose, quello che vorranno;

fabbrica settecento e più vascelli,

e in un autunno rigido, nell'anno

mille e settantasei, sugli Angli imbelli,

senza colpo ferir, piomba diritto:

il generale Nebbia era sconfitto ...

 

XI

GUGLIELMO IL CONQUISTATORE

 

Era sconfitto il generale Autunno,

e fu sconfitto ad Hastings il re Aroldo,

che di fronte a Guglielmo era un alunno:

come stratega, non valeva un soldo.

Guglielmo aveva l'anima di un unno

e d'un poeta: artista e manigoldo,

uno stato fondò, ch'era un prodigio

di forza, di sopruso e di prestigio.

 

Lo seguon cinquemila cavalieri,

a cui promise terre in guiderdone,

per cui confisca i sassoni manieri

disseminati in tutta la regione;

molti, li assegna in feudo ai suoi guerrieri,

ma fa per sé la parte del leone:

se ne tien mille ed, oltre che potente,

diventa ricco smisuratamente.

 

Fa le cose, però, con molto tatto:

in nome della legge. E' assai cortese

e generoso, spende come un matto,

facendo edificar splendide chiese;

sicché il popolo in fondo è soddisfatto

e non fa caso, il grosso del paese,

al mutamento della situazione:

tanto, ubbidir a questo o a quel padrone ...

 

Forte è Guglielmo (non è più «il Bastardo »,

adesso ha il nome di « Conquistatore»),

però, si sentirà vieppiù gagliardo

se disporrà di un gruzzolo maggiore;

per cui congegna, senza alcun riguardo

verso il vassallo e verso il valvassore,

un sistema di tasse ch'è un portento

da fare invidia al nostro Novecento.

 

Deve pagar la tassa ogni villaggio

ch'elegga uno sceriffo a suo piacere;

si consente agli ebrei lo strozzinaggio,

ma il re ci mangia su come un banchiere;

paga il ricco signor d'alto lignaggio,

quando il figlio diventa cavaliere;

paga chi prende moglie (oggi, al contrario,

sfrutta piuttosto i celibi l'erario).

 

Papa Gregorio settimo - Ildebrando ­

aiutò quel normanno intraprendente,

ma vuole, adesso, imporgli il suo comando:

è un santo, sì, ma è pure un prepotente,

e Arrigo quarto, che lo mette al bando,

andrà a Canossa come un penitente;

ma Guglielmo è più accorto ed ha al suo fianco

l'ancor più accorto vescovo Lanfranco.

 

E' un italiano nato in Lombardia,

che ha molto ingegno e che s'è fatto strada;

umile fraticello in Normandia,

sa maneggiar il calice e la spada;

ministro ed arcivescovo via via,

dirige il re tenendolo un po' a bada

lusinga il papa e, furbo di tre cotte,

sa dare un colpo al cerchio, uno alla botte .

 

Accontenta Gregorio ed il sovrano

sulla questione delle investiture

e fa del regno un organismo sano,

preparato alle sue glorie future.

Molto più tardi, invece, un italiano

(saran passati, in età chiare e scure,

molti re, molti eventi e molti papi)

darà a quel regno tanti grattacapi.

 

XII

I FIGLI DEL CONQUISTATORE

 

Guglielmo primo, il grande re normanno,

passò la vita con la lancia in resta,

ma, intelligente ed abile tiranno,

oltre a brillare in clamorose gesta,

con saggezza regnò per ventun anno;

un giorno cadde e si spezzò la testa,

mentre per terra rotolava l'elmo:

così moriva il celebre Guglielmo.

 

Agonizzante, fece testamento:

«Quel mio figlio Roberto è scimunito

ma gli assegno il ducato e stia contento! »

Lasciò il regno a Guglielmo, il preferito,

e al terzo figlio Enrico un po' d'argento;

poi tacque e chiuse gli occhi: era finito!

Il corpo - uno storiografo dichiara - ­

si gonfiò tanto che spaccò la bara.

 

Guglielmo il Rosso (il viso rubicondo

gli è valso quel nomignolo un po' strano)

dei figli di Guglielmo era il secondo,

e anch'egli sarà un abile sovrano;

ma, volgare manesco trucibondo,

detesta i preti e il viver cristiano,

ama il denaro, mangia ch'è un piacere,

spesso bestemmia come un carrettiere.

 

Sotto il suo regno, Pietro l'Eremita,

che in Terrasanta fu: - manco li cani,

- grida piangendo in pubblico - che vita

fan lì quegli infelici cristiani!

E per borghi e città le turbe incìta

ad arruolarsi contro i mussulmani.

Commossi da quell'umile eloquenza,

prenci e vassalli partono d'urgenza.

 

Roberto, indebitato fino all'osso,

anch'ei s'unisce alla Crociata pia,

dopo che dà il Ducato al furbo Rosso,

per diecimila marchi, in garanzia.

Quest'ultimo, però, poco commosso,

non un soldato in Terrasanta invia,

e proclama così: «Se il mondo è matto,

pei begli occhi dei preti io non mi batto! ».

 

Morto Lanfranco, il cupido Guglielmo

lascia vacante rarcivescovado:

le teste con la mitria e senza l'elmo

- egli dichiara - non gli vanno a grado;

ma un dì s'ammala e al santo prete Anselmo,

condottogli dinanzi, suo malgrado,

dà il pastorale con celata furia:

perde le ricche entrate della Curia!

 

Italiano anche lui (nacque ad Aosta),

Anselmo non ha peli sulla lingua:

la Chiesa - grida al re - non è disposta

a far che in Anglia il poter suo s'estingua;

e giunge a dargli della faccia tosta

che coi beni dei vescovi s'impingua ...

Deve fuggir, ma il sire, all'impensata,

è ucciso da una freccia... ammaestrata.

 

Enrico, allora, i suoi diritti vanta

contro Roberto, il suo maggior fratello,

che ancor sta combattendo in Terrasanta:

prima che il morto re sia nell'avello,

corre al Palazzo ed il tesoro agguanta,

promette a chi una terra, a chi un castello,

per cui riesce a farsi incoronare,

ciò che in quei tempi ancora era un affare


XIII

ENRICO I - L'ANARCHIA

 

Incoronato re nel mille e cento,

Enrico primo intelligente e astuto,

mercè una «Carta» (ossia promesse al vento),

è accolto a Londra come il benvenuto;

perché il popolo, poi, sia più contento,

sposa un'inglese; energico e avveduto,

scalza i baroni, toglie alcune tasse

e suscita il delirio delle masse.

 

A gonfie vele tutto ormai procede,

fin quando un naufragio, una mattina,

gli muore il figlio, il giovinetto erede;

non ha che una figlia anche bruttina:

Matilde;ed egli ai suoi baroni chiede

chiede ubbidiscano a lei come regina.

Ma morto il sire, un grido intorno s'alza:

le donne stiano in casa a far la calza!

 

I baroni, sfogando il proprio fiele,

offrono il trono a un giovane signore,

Stefano diploi,nato da Adele,

ch'era la figlia del Conquistatore.

La pia Malilde, allor, spiega le vele

Col iglio Enrico, vinta dal terrore,

e scampa nei suoi feudi in Normandia.

La canaglia si sfrena:è l'anarchia!

 

 

Londra diventa, un libero «comune »;

le bande armate dei baroni insorti,

intesi ad usurpar le altrui fortune,

trasforman rocche e feudi in piazzeforti;

forse, mai tanto lavorò la fune,

come in quel tempo, in quelle orrende corti,

dove impiccar la gente a testa sotto

fu il passatempo d'ogni signorotto.

 

Gl'inermi, i vinti, gli umili, avviliti,

lasciando in massa le città indifese,

vanno nei boschi e fanno gli eremiti,

mentre i baroni, non badando a spese,

dopo i saccheggi ignobili, contriti,

-non fanno che innalzar chiese su chiese,

certi che Dio, contento dell'affare,

l'anime loro non vorrà dannare ...

 

La regina Matilde era sposata

con Goffredo d'Angiò Plantageneto:

è questa una terribile casata,

c'ha nel suo sangue il tossico e l'aceto;

famiglia prepotente e strampalata,

ha col demonio un vincolo segreto;

così maligna il popolo e la teme ...

Il figlio di Matilde è di quel seme.

 

Quest'uomo ha, mezza Francia ai suoi servigi,

è ardito, colto, intelligente, adora

le belle donne; e un dì, giunto a Parigi

dai suoi dominii, non ventenne ancora,

per far atto d'omaggio a re Luigi,

ruba a questi la moglie: un'Eleonora

(fin da quei tempi, principi e borghesi,

sempre così quei poveri francesi!).

 

Mediante l'intervento della Chiesa,

Stefano di Blois, fiacco e incapace,

stanco di governar, firma un'intesa:

s'associa al trono quel ragazzo audace,

che, morto il re, s'accinge a un'ardua impresa:

ridar d'urgenza l'ordine e la pace

a quel paese, in mano da vent'anni

a grossi, medii e piccoli tiranni.

 

XIV

ENRICO PLANTAGENETO - TOMMASO BECKET

 

Con questo nuovo re, capiscon tutti

- ch'è giunta l'ora di filar diritti.

Quei castelli sian subito distrutti,

dove avvenivan già tanti delitti!

Sian impiccati i ladri e i farabutti,

ed i baroni stiano bravi e zitti:

ricordino anche lor che c'è la forca

per chi un capello a un cittadino torca!

 

Ce n'è per tutti: Enrico, immantinenti,

le corti di giustizia ha inaugurate,

con pene, pei delitti e i tradimenti,

che vanno dalla morte alle vergate.

Le donne linguacciute e maldicenti

sono appese a una pertica e tuffate

per quattro o cinque volte in uno stagno

(mentre i mariti gridano: «Buon bagno! ».

 

I ladri, per lo più, son mutilati;

son condannati a morte gli assassini.

Giran pel regno giudici togati,

che son dei veri e propri pellegrini;

l'arbitraria giustizia dei privati

non più imperversa, e i bravi cittadini

vivon tranquilli all'ombra della legge,

ch'è un po' balzana, sì, ma li protegge.

 

Nella sua corte il re, fine e sapiente,

si circonda d'artisti e d'eruditi,

nonché ... d'amanti: vecchio impenitente,

un campionario n'ha fra i più assortiti.

E poi, va molto spesso in continente,

sia per la cura dei suoi feudi avi ti,

sia per l'amor che porta alle francesi,

che son molto leggiadre e assai cortesi.

 

S'avventura pei lidi più lontani

e per regioni impervie e sconosciute;

ed oltre ai suoi cavalli ed ai suoi cani,

(ama la compagnia, non si discute)

astrologhi, dottori, cortigiani,

buffoni, lavandaie, prostitute,

osti, mercanti ed altri personaggi

seguono sempre il re nei suoi viaggi.

 

Intanto, l'arcivescovo Teobaldo,

a cui sembra, quel re, molto avventato

con la sua mente accesa e il sangue caldo,

gli mette a fianco un suo raccomandato,

un giovane normanno, un po' spavaldo,

ma onesto, intelligente, equilibrato,

che, con un attributo un po' generico,

faceva all'arcivescovo da chierico.

 

E piace al re quell'uomo un po' mondano,

buon cacciatore, esperto cavaliere:

è tal Tommaso Becket. Il sovrano

finì col nominarlo Cancelliere;

poi, morto l'arcivescovo decano,

senza a nessuno chiedere il parere

e agendo di sua propria iniziativa,

il seggio di Cantèrbury gli offriva.

 

« Bene », Tommaso, allor dice ad Enrico:

«non crediate, però, d'approfittare,

dando un simile posto a un vostro amico,

per disporre di lui come vi pare,

perché, quale arcivescovo, vi dico

che più che il trono servirò l'altare ».

E diviene un asceta e un penitente,

umile, austero, pio, ma intransigente.

 

XV

FINE DI ENRICO PLANTAGENETO

RICCARDO CUOR DI LEONE

GIOVANNI SENZA TERRA

 

Il re non vuol che il papa, in nessun caso,

abbia più in Anglia alcuna inframmettenza;

ma il severo arcivescovo Tommaso

è ligio a Roma, è tutto intransigenza

e fa saltare al re la mosca al naso:

un giorno, con sacrilega incoscienza,

quattro baroni a colpi di pugnale

lo uccidon nella stessa cattedrale.

 

L'empio delitto suscita lo sdegno

universale: in pio pellegrinaggio,

da tutti quanti gli angoli del regno

accorrono i fedeli a fare omaggio

alla tomba del martire. Ritegno

non han più alcuno, fattisi coraggio,

i nemici del re, ch'ora alla lesta

escon dall'ombra e chiedon la sua testa.

 

E fra i nemici suoi, pronti a marciare,

sono gli stessi figli, immansueti,

malvagi. Che genìa! Niente da fare:

tutti quanti così, principi o preti,

di padre in figlio, l'odio familiare

ce l'han nel sangue quei Plantageneti!

Fin la moglie Eleonora d'Aquitania

è avvelenata dalla stessa insania.

 

Enrico, ch'era in Francia, in fretta e furia

torna a Londra senz'armi e senza armati;

chiede perdono al papa d'ogni ingiuria,

va a Canterbury a piedi, a quegli abati

restituisce i beni della Curia,

si fa frustare da settanta frati,

per cui l'applaude il popolo commosso;

ma non gli giova: il suo prestigio è scosso.

 

Torna in Francia a combattere. Costretto

a fuggire da Mans, fra i suoi nemici

scopre Giovanni, il figlio prediletto,

a capo delle truppe inseguitrici.

- Plantageneti, seme maledetto! -

­grida, ed in braccio ai pochi ultimi amici

piega la stanca testa incanutita,

maledicendo gli uomini e la vita.

 

E' chiamato a succedergli Riccardo,

traditore anche lui: «cuor di leone»

è battagliero, intrepido, gagliardo,

avventuroso, sì, ma un po' cialtrone:

fa il poeta, il crociato, il pappalardo,

tutto tranne che il re; gran fatalone,

nel cuore delle donne ama far breccia ...

Morirà in Francia, ucciso da una freccia.

 

L'altro fratello, il perfido Giovanni,

detto poi «Senza Terra », è un farabutto:

salito al trono, liquida in pochi anni

ciò che il padre abilissimo ha costrutto.

Il Papa lo scomunica, i Normanni,

e vescovi e baroni, e il popol tutto,

inveleniti insorgon contro lui,

«a Dio spiacente ed ai nemici sui».

 

Inutilmente, non badando a spese,

milizie mercenarie egli raduna:

istigato dal papa, il re francese

gli toglie le sue terre ad una ad una.

Alla notizia, giubila il paese:

a volte, una sconfitta è una fortuna

(ne san qualcosa pure gl'Italiani,

ch'ai vincitori ancor batton le mani).

 

XVI

IL SECOLO TREDICESIMO
LA MAGNA CHARTA
ORIGINI DEL PARLAMENTO

 

Tornato in Inghilterra, il re sconfitto

viene fischiato ignominiosamente:

finché un re vince, è logico, ha il diritto

di fare il capriccioso e il prepotente;

quando perde, però, deve star zitto:

ci tiene al posto? E allor sia compiacente:

o si pieghi a firmar la «Magna Charta »,

ch'è uno statuto in do minore, o parta!

 

Giovanni, ormai ridotto ad uno straccio,

sa che, firmando quella pergamena,

non può più fare il proprio 'comodaccio,

ma inutilmente strilla e si dimena:

c'è, dinanzi alla reggia, il popolaccio

che, acclamando i baroni, urla e si sfrena.

Decide allora il re, che non è scemo:

«Per ora firmerò, dopo vedremo ... ».

 

Non crediate, con ciò, che il popolino

sappia che cosa sia quel documento,

fra le altre cose, poi, scritto in latino,

ch'è la lingua ufficiale del duecento,

ma gli han detto così: «Re Giovannino

non metta più balzelli a suo talento,

non muova guerre più, né leggi imparta,

se non lo chiede a noi! Viva la Charta! ».

 

Secondo quella Charta, un comitato

di venticinque membri avoca a sé

il controllo supremo dello stato

ed ogni autorità ... «Povero me!»

Govanni esclama, afflitto e costernato:

«m'han dato venticinque super-re!»

Ma non per questo perde l'appetito:

muore d'indigestione, ipernutrito.

 

La vita, intanto, cresce: è necessario

appilcar nuove tasse, e la corona,

che non ha mezzo di nutrir l'erario,

dallo Statuto sempre più scantona.

Simone di Monfort, gran feudatario,

del re cognato, insorge ed imprigiona

il figlio di Giovanni, Enrico terzo,

che quella Charta aveva preso a scherzo.

 

Simone è un uomo pieno di talento,

un latino geniale: egli ha sentito

che ormai nel mondo (siamo nel duecento

ed il pensiero ha molto progredito)

vivo e vitale s'agita un fermento

nuovo,un bisogno ancora indefinito

di libertà, che gli animi sommuove,

fra un potente sbocciar di forze nuove.

 

Simone di Monfort, rude e gagliardo,

verrà ammazzato, ancor nel fior degli anni,

dal figlio primogenito (Edoardo)

del re deposto. Pur tra gravi affanni,

il Parlamento, invece (è un bel testardo!)

bollato dai più ignobili tiranni,

di farsi seppellir non vuol saperne,

perché risponde a certe leggi eterne.

 

XVII

EDOARDO I E I CELTI

 

Plantageneto indocile e violento,

con nelle vene il caldo sangue avito,

Edoardo, però, fin dal suo avvento,

sente che il dispotismo è ormai finito,

e dà forma concreta al Parlamento,

dal signor di Monfort già concepito:

egli è, difatti, il primo re che aduni

le Camere dei Lords e dei Comuni.

Pur discendendo dal Conquistatore,

il normanno Edoardo è un vero inglese;

uomo di senno e, insieme, di valore,

progetterà le più svariate imprese,

ma ciò che maggiormente gli sta a cuore

è compier l'unità del suo paese

(è un uomo che non scherza e che non ozia),

sottomettendo il Galles e la Scozia.

 

Già da secoli ormai, vivono i Celti

nella Scozia e nel Galles, dietro un « Muro »,

da dove più nessuno li ha divelti:

fra quei monti si sentono al sicuro;

indomiti guerrieri, arcieri scelti,

sono un nemico resistente e duro:

si combatton fra loro in tutti i modi,

ma non voglion gli Inglesi per custodi.

 

Quando Edoardo era soltanto un conte,

voleva imporre lor le usanze inglesi:

tratta la spada, si trovò di fronte

alle frecce dei barbari gallesi,

e il suo antico, progetto andava a monte,

dopo una lotta di parecchi mesi;

ma, divenuto re, pochi anni dopo,

li vince, raggiungendo il proprio scopo.

 

Però, benché la Scozia abbia domato,

lì non riesce a farla da padrone:

invano, conciliante e misurato,

la tratta dapprincipio con le buone;

invano poi, terribile e spietato,

riduce ad un deserto la regione,

perché più lui la vince e più la schiaccia,

più quella si solleva e lo ricaccia.

 

E' del parere, il re, che chi la dura

la vince, e non c'è caso che desista:

presso a morire, chiede (e il figlio giura)

che soltanto ultimata la conquista,

non prima, un'onorata sepoltura

sarà data al suo corpo ... Era ottimista:

ché, se al volere suo davano ascolto.

restava per due secoli insepolto!

 

Ma Edoardo secondo, il suo rampollo,

trova che, in fondo, senza quel possesso

ed anche senza aver sotto controllo

la Scozia, si può vivere lo stesso.

E' un uomo effeminato e un rompicollo:

ama un buffone e fa il buffone anch'esso;

tanto che la regina, insofferente,

si regala un amante ufficialmente.

 

Contro il marito, un giorno, essa capeggia

una rivolta, arresta il tristanzuolo

(che dalle stesse guardie della reggia

viene impalato come un mariuolo)

ed insieme all'amante spadroneggia,

finché il terzo Edoardo, il suo figliuolo,

il drudo di mammà spedisce a Dio

e dice: «Adesso basta: il re son io! ».

 

XVIII

LA GUERRA DEI CENTO ANNI

LA PESTE NERA

 

La situazione, qui, si compromette:

il re, che fin dal tempo dei Normanni

ha feudi in Francia, in testa ora si mette

che la Francia obbedir debba ai Britanni.

E nel milletrecentotrentasette

scoppiò una guerra che durò cent'anni

(epoche, quelle, di ben altro stampo,

in cui non c'era ancor la ... guerra-lampo).

 

Dal canto suo, Filippo, il re di Francia,

vuole le Fiandre, ma l'industria inglese

su quel mercato i suoi prodotti lancia,

specie la lana: l'oro del paese.

I mercanti, che già metton su pancia,

chiedon la guerra, non badando a spese,

e i deputati, unanimi e contenti,

batton le mani e votan gli armamenti.

 

Dai propri agenti apprendono gl'Inglesi,

prima di scatenar quel guazzabuglio,

che i porti in Normandia sono indifesi

e che la Francia, al solito, è in subbuglio.

Con cavalieri e arcieri anglo-gallesi

il re sbarca a La Hougue, il dieci luglio,

invade la provincia e, ovunque passa,

feroce apre macello e fa man bassa.

 

L'Inghilterra è più ricca e meglio armata:

oltre agli arcieri, ad un buon corpo equestre

e ad una flotta ben equipaggiata,

ha molti lanciatori di balestre:

quest'arma dal pontefice è vietata,

pel fatto che, affidata a mani destre,

ammazza un uomo inesorabilmente ...

da cento metri, come fosse niente!

 

Tempi modesti ancora, amici miei,

e dal progresso ancor molto lontani:

adesso i civilissimi europei

s'ammazzan con le bombe e gli aeroplani.

E questo è niente: tali ordigni rei,

che già sembravan tanto disumani,

son diventati una robetta comica,

paragonati con la bomba atomica!..

 

Gl'Inglesi, entusiasmati, vanno avanti,

ma la guerriglia è dura e si trascina.

A Londra, coi profitti esorbitanti,

mentre la gente in Francia va in rovina,

s'impinguan gli armaioli ed i mercanti,

inneggiando alla guerra e alla sterlina.

Ma nel frattempo, nell'Europa intera,

scoppia il flagello della peste nera.

 

Erano tempi poco progrediti,

l'igiene ancor ignota era ai mortali:

per le vie di Parigi e della City

- pensate un po'! - giravano i maiali

(girano ovunque ancor, ma più puliti,

in guanti gialli e lucidi stivali...).

Il contagio divampa: in Inghilterra,

mezzo paese in breve è sottoterra.

 

Privo di braccia il suolo, indi, rimane

e le lor terre vendono i baroni,

che si dànno al commercio delle lane,

visto che sovrabbondano i montoni.

Servono sbocchi in terre più lontane;

perciò, dei mari occorre esser padroni:

ecco, così, se ancor non lo sapeste,

come un impero nasce da una peste!

 

XIX

LA RIVOLTA DEI CONTADINI

 

I Francesi costringon gli invasori

a una guerra lunghissima d'assedio,

sicché gl'Inglesi, dopo tanti allori,

non reggon quasi alla stanchezza e al tedio;

nel sessantuno, i quasi vincitori

accettano una pace di rimedio:

la Francia cede ad Edoardo re

qualche provincia e il porto di Calais.

 

Ma il re si rammolisce: ormai negli anni,

s'innamora d'Alice, una fantesca,

che tiranneggia i poveri Britanni,

corrompe i preti, i deputati adesca,

col figlio ultimogenito Giovanni

del vecchio re, con cui, sfacciata, tresca

(l'erede al trono, principe Edoardo,

morì lasciando un pargolo: Riccardo).

 

Alla morte del vecchio, il re fanciullo

sale sul trono; ma è lo zio che regna,

e fa del Parlamento un suo trastullo,

di disgustare il popolo s'ingegna:

il poter della legge è quasi nullo,

l'arbitrio impera, ed una cricca indegna

di monaci e d'abati s'arricchisce,

mentre il contado ha fame ed intristisce.

 

Un teologo inizia una campagna:

Wycliffe. Ha sulla lingua pochi peli

e bolla quell'ignobile cuccagna,

reclamando il ritorno agli evangeli;

per le provincie della Gran Bretagna

vanno poveri preti, a lui fedeli,

predicando con fede e con costanza

la povertà, la pace e l'uguaglianza:

 

Pei boschi e le foreste, intanto, vaga,

scacciata dalle terre dei signori

per aver chiesta un'adeguata paga,

tutta una turba di lavoratori.

La rivolta fermenta, indi dilaga,

alimentata dagli agitatori:

pace, uguaglianza e libertà per tutti.

E dànno, quelle prediche, i lor frutti.

 

Fra un divampar d'incendi e di funeste

stragi, i castelli invadono gli insorti,

mentre i baroni in mezzo alle foreste

cercano scampo con le loro corti;

a Canterbury, taglian molte teste

d'abati e, sempre più compatti e forti,

giungono infine a Londra, ove il re corre

a rifugiarsi nella fosca torre.

 

Saccheggian la città - Morte ai tiranni! -

roteando le scuri ed i randelli;

incendiano la casa di Giovanni,

sotto gli sguardi dei soldati imbelli.

Da solo, il re, ch'è un bimbo di pochi anni,

affronta allora i beceri ribelli,

che, innanzi a quel coraggio, o a quel candore,

gridano « evviva» al piccolo signore.

 

I ministri dan poi, fra i battimani,

carte di libertà: l'ira plebea

è del tutto ammansita, ed i villani

tornano a casa lor ... Pessima idea:

perché giudici e boia, all'indomani,

da Londra fin nell'ultima contea,

li impiccheranno in massa e,

soddisfatta, la Corte annunzierà:

« Giustizia è fatta ».

 

XX

RIPRESA DELLA GUERRA DEI CENTO ANNI

DINASTIA LANCASTERIANA

 

Quel bimbo, divenuto adolescente,

tratta i Comuni con crudel cipiglio,

tartassa i suoi vassalli ignobilmente,

confisca i beni a suo cugino, il figlio

Giovanni Lancaster, che, furente,

tornato a Londra dopo un breve esiglio,

il re imprigiona ed ordina al suo sarto

un costume regale: è Enrico quarto.

 

Succede a questi il figlio Enrico quinto,

che riprende la guera già sospesa:

vuole il trono di Francia ed è convinto

che sia piuttosto facile l'impresa.

Il popolo , d'altronde, a piè sospinto,

vuole abolire o riformar la Chiesa,

ed al sovrano i vescovi hanno imposto

un diversivo urgente ad ogni costo.

 

Londra è sicura ormai della vittoria,

perché i francesi sono in mezzo ai guai;

il re, che lì presiede alla baldoria,

è Carlo sesto il Pazzo: ora, tu sai

che nei momenti gravi della storia

i pazzi, in Francia, non difettan mai,

sian presidenti o re del vasto impero,

si chiamin Carlo sesto o Laval Piero.

 

L'esercito francese è ben armato,

ma trova innanzi a sè duemila arcieri,

che ad Azincourt ammazzano d'un fiato

ben diecimila e rotti cavalieri.

Quei francesi son prodi, è indubitato,

ma, intanto, passan sempre dispiaceri:

ora gli arcieri, dopo i carri armati,

finiscon quasi sempre liquidati!

 

Parigi al vincitore apre le porte.

Enrico quinto sposa Caterina,

la figlia del re pazzo; una consorte

ch'egli ha impalmato a scopo di rapina:

il patto del coniugio è che, alla morte

di Carlo, vecchio sulla sessantina,

Enrico, appunto, ne sarà l'erede;

ma nella tomba il suocero ei precede.

 

Quel trono dovrà adesso ereditarlo

suo figlio Enrico sesto, un bimbo in culla,

cosicché, morto il Pazzo, al figlio Carlo

non spetterebbe esattamente nulla;

ma, ispirata da Dio, giunge a salvarlo

Giovanna d'Arco, un'umile fanciulla,

che l'armatura dei guerrieri indossa

e conduce i Francesi alla riscossa.

 

Liberata Orléans in un momento,

strappa Parigi ai vincitori inglesi,

che, avuta la fanciulla a tradimento,

la fan morire sui carboni accesi.

Da allora la metà del quattrocento),

visto il prodigio, i poveri Francesi,

entusiasmati, nei più neri giorni,

aspettan sempre che Giovanna torni.

 

(Non è tornata più). Gli Angli, disfatti,

serbano solo il porto di Calais,

e coi Francesi come cani e gatti,

si guarderan per secoli, finché,

nel Novecento, scenderanno a patti

con un'« Intesa» combinata a tre

(Francia, Inghilterra e Russia),

assai cordiale, finita in un massacro universale.

 

XXI

LA GUERRA DELLE DUE ROSE

RICCARDO III TUDOR

 

Contro il debole Enrico (il nipotino

di Lancaster Enrico usurpatore)

si solleva Edoardo, un suo cugino,

duca di York: il giovane signore

sostiene ch'è l'erede più vicino

del re detronizzato: ha del valore

e dell'audacia, mentre Enrico sesto

e un pover'uomo, disgraziato e onesto.

 

(Ogni mattina si recava a messa;

s'occupava di storia e teologia;

sopportava la moglie: una contessa

Margherita d'Angiò, ch'era un'arpia.

Aveva un'aria semplice e dimessa,

e non un soldo: nell'Epifania

del millequattrocentocinquantuno,

per mancanza di sghei, restò digiuno).

 

Edoardo s'accinge alla riscossa:

reclama il trono; ma la gente è stanca:

solo i baroni voglion la sommossa,

perché chi vince più ricchezze abbranca.

E così attorno ad una « rosa rossa »,

stemma d'Enrico, ed alla « rosa bianca»

dei York, a un tratto quella guerra esplose,

che appunto si chiamò delle Due Rose.

 

E' nipote del Pazzo, Enrico sesto,

e un giorno anch'egli perde la ragione:

trova, Edoardo, un ottimo pretesto

per proclamarsi re; ma, un po' cialtrone,

si rende quasi subito indigesto

ed è scalzato dall'opposizione.

Ma, dopo, la rivincita si piglia

e ammazza il re con tutta la famiglia.

 

Questo Edoardo quarto è un re cortese,

di maniere piacenti e birichine,

bello, provvede a tutte le sue spese

offrendo ... baci in cambio di sterline:

le mogli dei mercanti, molto accese,

fanno al giovane re mille moine,

e i mariti, contenti e beccaccioni,

hanno in compenso ambite concessioni.

 

Nell'anno ottantatrè, muore Edoardo,

lasciando due figliuoli. Un suo fratello,

il gobbo e crudelissimo Riccardo,

che aspira anch'egli al trono, apre macello:

uccisili ambedue, senza riguardo,

la gobba copre col regal mantello;

ma non gli giova assai: grave d'affanni

sarà il suo regno e durerà due anni.

 

Quei crimini, negli animi sgomenti,

han provocato un vero raccapriccio.

Nuovi massacri, nuovi tradimenti...

Come por fine al tragico pasticcio?

Resta un Lancaster solo (i suoi parenti

sono morti ammazzati), malaticcio,

sofferente di fegato e di pancia:

Enrico Tudor rifugiato in Francia.

 

E resta una fanciulla, Elisabetta,

figliola d'Edoardo, umile e mite:

sposando i due ragazzi, si progetta

d'aver due rose in una rosa unite.

Enrico sbarca in patria in tutta fretta

e affronta il re, che muore di ferite.

S'uniscon le due rose e i due cugini:

ne verran fuori certi fiorellini...

 

XXII

ENRICO VII

ENRICO VIII E RELATIVE MOGLI

 

Quell'uomo triste, debole e ammalato,

incoronato re, fu un nuovo Giove:

domò i baroni, rinsaldò lo stato

con nuovi ordinamenti e leggi nuove.

Regnò per quindici anni indisturbato

e morì poi nel cinquecentonove;

fu, in fondo, onesto, illuminato e bravo,

ma diede al mondo un cane: Enrico ottavo.

 

Questi conosce il greco ed il latino,

è il gran signore del Rinascimento,

magnifico, crudele e libertino,

non privo di buon gusto e di talento;

ha un piccolo difetto, poverino:

potrebbe avere amanti a piacimento

(ha largo il cuore e largo il portafogli),

ma amanti non ne vuol, vuol delle mogli.

 

Si sposa ancor ventenne, in pompa magna,

con donna Caterina d'Aragona,

figlia di Ferdinando re di Spagna,

vedova del fratello: è una «tardona»

di cui ben presto il coniuge si lagna,

trovando Anna Bolena assai più buona,

tanto più che in cinque anni la spagnuola

non gli ha saputo dar che una figliuola.

 

Egli protesta contro Caterina,

che non fa figli più: vuole un erede!

E' innamorato d'Anna, assai carina,

ed il divorzio al buon Clemente chiede;

ma il papa teme, poi che la regina

è zia di Carlo quinto, onde non cede;

e il re sposa in segreto Anna Bolena,

ch'è da più mesi con la pancia piena.

 

Il papa lo scomunica, ma Enrico

non se la prende e ostenta un umor gaio;

ha un consigliere che gli fa da amico,

già mercante di lana e gualcheraio:

Tommaso Cromwell, avido, impudico,

profittatore, che combina un guaio;

è lui, difatti a provocar: lo scisma,

ch'è per quei tempi un vero cataclisma.

 

Contro Clemente il re disceso in guerra,

proclama la riforma in Parlamento

e, «capo della Chiesa d'Inghilterra »,

impone ai preti il nuovo giuramento;

spoglia i conventi, i suoi nemici atterra,

mozza la testa o brucia a cento a cento,

dopo un processo rapido e sommario,

preti e borghesi di parer contrario.

 

Mentre Cromwell continua, a piè sospinto,

ad ordinar spietate esecuzioni,

papa Clemente scrive a Carlo Quinto

e al re di Francia e chiede le sanzioni.

Non c'era ancor l'allegro labirinto

chiamato «Società delle N azioni»;

ma le sanzioni fin da quell'età,

non han, purtroppo, alcuna serietà!

 

 

Anna Bolena, intanto, è sfortunata:

dà alla luce una bimba, Elisabetta,

mentre il re vuole un maschio, onde ... l'ingrata

è dannata a morir sotto l'accetta.

Impalma il sire un'altra fidanzata:

Gianna Seymour, la quale, poveretta,

fa un figlio, sì, ma muore dopo il parto.

S'impone un nuovo matrimonio: il quarto ...

 

XXIII

FINE DI ENRICO VIII - MARIA TUDOR -

ELISABETTA

 

Cromwell presenta al re la quarta moglie:

Anna di Clève. Il grasso re la osserva,

la trova prima adatta alle sue voglie,

ma poi la scaccia via come una serva.

La carica al ministro, inoltre, toglie,

vinto da un'ira stupida e proterva,

e lo fa giustiziare: «Così impari

a presentar le racchie ad un mio pari! ».

 

E passa a un'altra: una donnina gaia,

tal Caterina Howard. E' un affar serio:

lei pure va a finir sulla mannaia,

colpita da un'accusa d'adulterio!

Adesso Enrico aspira a una massaia

buona ed onesta, piena di criterio:

la trova, il che dimostra che in amore

le donne hanno più ... fegato che cuore!

 

E' Caterina Parr, questa consorte,

che trema di continuo e non ha pace:

non è dal sire condannata a morte,

perché il demonio, alfine, si compiace

di portarselo via. Popolo e corte

ringrazian Dio commossi... Ora, un fugace

accenno al trio: due femmine e un ragazzo,

che sono i figli dell'illustre pazzo.

 

Giovane muore il figlio della bella

Gianna Seymour, e spetta la corona

a Maria Tudor, pallida zitella,

figlia di Caterina D'Aragona:

vive fra i preti in una sua cappella,

cattolica arrabbiata; a lei non suona

un'Inghilterra eretica ed impone

un'immediata e piena conversione.

 

E il popolo borbotta. Il re di Spagna

vuol far della zitella una signora

e le mette un suo figlio alle calcagna:

il bel Filippo, giovanotto ancora.

Per lei, trentasettenne, è una cuccagna:

vede quel bel «gagà », se ne innamora

e sposa lo straniero in un momento,

contro la volontà del Parlamento.

 

Filippo, poi, va via: non lo solletica

quella zitella afflitta e solitaria.

Intollerante, isterica, bisbetica,

essa diventa pazza e sanguinaria,

e gode a far bruciar la gente eretica,

dicendo che la fede è necessaria.

Continuamente, poi, fra gli altri guai,

si crede incinta e non è incinta mai.

 

E sembra che, delusa, ella si sfoghi

a sradicar dei «reprobi» la razza:

a Londra come in Spagna e in altri luoghi,

gli autodafè si celebrano in piazza.

Ma la luce che nasce da quei roghi

non si spegnerà più ... La vecchia pazza

muore da tutti irrisa e maledetta,

lasciando il trono a Lady Elisabetta.

 

E' il cinquecentocinquantotto, quando

la saggia, spiritosa e birichina·

figlia d'Anna Bolena, il ciel lodando,

indossa il suo mantello di regina.

Semplice, mite e, insieme, atta al comando,

seduce tutti: il mondo a lei s'inchina;

duchi e giullari, principi e prelati

le fan la corte ... senza risultati.

 

XXIV

IL REGNO ELISABETTIANO

LA SCONFITTA DELLA GRANDE ARMATA

 

Elisabetta è colta, ha un bel talento;

si fa chiamar Gloriana in italiano:

ammiratrice del Rinascimento,

ama l'Italia (non vi sembri strano!

E' l'Italia gentil del Cinquecento:

non sogna un nuovo Cesare romano,

è la patria dell'arte e del buon gusto:

non ubbidisce a un tronfio e falso Augusto).

 

Abile e astuta, in tempi come quelli

regnò per cinquant'anni indisturbata.

Non possedendo ancor molti vascelli,

conduce una politica oculata;

fa strage di cattolici ribelli,

ma se ne mostra molto addolorata;

sempre pronta a mentir come una ... donna,

sembra una perla ed è un demonio in gonna.

 

Come saprete, Spagna e Portogallo

s'eran diviso allegramente il mondo;

Elisabetta vuole entrar nel ballo,

ma sa che il re di Spagna. è un po' iracondo:

ha molte navi e a chi gli pesta un callo

brutti scherzi suol far Pippo secondo,

per quanto quella piccola regina

gli faccia tanto gola: è assai carina.

 

Sir Francis Drake, un giorno, arma la flotta

con la bandiera della Gran Bretagna

e, ardito, assale alcune navi in rotta,

con un carico d'or, verso la Spagna;

dopo una breve ed accanita lotta,

le costringe alla resa: è una cuccagna!

«Viva i corsari!» grida Elisabetta,

che intasca la sua parte (era in bolletta).

Per castigare quegli avventurieri,

in Ispagna, la « santa» Inquisizione

brucia tutti gli Inglesi prigionieri,

come nemici della religione.

Sir Francis Drake, armati dei velieri,

con una prodigiosa spedizione,

saccheggia allor, rubando a piene mani,

i dominii di Spagna americani.

 

Filippo, fuor di sè, passa in rivista

la Grande Armada a Cadice: progetta

d'intraprender senz'altro la conquista

dell'Inghilterra e insulta Elisabetta.

Francis, con un'audacia non mai vista,

fa il giro della Spagna in tutta fretta

e, penetrato a Cadice, distrugge

molte galere e indisturbato fugge.

 

Filippo numerosi altri vascelli

(mentre Londra n'ha appena una ventina)

prepara, ancor più solidi e più belli, .

e dà il comando al duca di Medina.

Gli Spagnuoli ammassati sui «castelli »,

pronti allo sbarco e alla carneficina,

son trentamila, ed altrettanti n'arma

nelle Fiandre il principe di Parma.

 

Sa il re, snudando la potente spada,

che domerà la piccola Inghilterra;

e concentra a Calais la Grande Armada,

al cui solo pensier trema la terra:

ma quella affonda ... Ahimè, come ciò accada,

è vano domandar! Questa è la guerra:

più d'uno, in questo mondo sciagurato,

sicuro di picchiar, restò picchiato ...

 

XXV

ELISABETTA E MARIA STUARDA

 

Intanto, la simpatica regina,

a furia di «flirtar », resta zitella,

per cui l'erede al trono è sua cugina,

Maria Stuarda, capricciosa e bella:

sposa del re di Francia, poverina,

restava, dopo un anno, vedovella;

ma mai fu vista al mondo, amici miei,

una più allegra vedova di lei.

E' regina di Scozia. A un lord inglese

concede, dopo il lutto, la sua mano,

ma s'innamora, dopo qualche mese,

d'un irruente musico italiano,

che per lei trova delle ... note accese,

ignote al freddo coniuge anglicano

(sembra che il di lei figlio, Giacomino,

non manchi di gentil sangue latino).

 

Giovanni Knox è un prete intransigente:

tempra di Scozia, dura, aspra, testarda;

capo dei protestanti, è un prepotente,

odia le donne ed in Maria Stuarda,

cattolica, leggera e strafottente,

vede un'empia nemica e la bombarda

coi suoi sermoni pubblici e privati,

spronando contro lei gli animi irati.

 

E' una donna educata alla francese,

piena di grazia ed anche di coraggio;

ma si trova a regnar su d'un paese

fanatico, crudele, ancor selvaggio.

Quel feroce teologo scozzese

dal minaccioso biblico linguaggio,

già fin dal primo giorno, le predisse

tutti i disastri dell'Apocalisse.

 

Elisabetta sembra un po' gelosa

di quella donna giovane e carina,

però, si mostra buona e affettuosa

verso la cara e frivola cugina.

Frivola, certo: il musicista estroso,

che tanto amava la gentil regina,

è ucciso, un giorno, mentre con lei cena;

ella lo piange per due giorni appena.

 

Subito dopo, un nuovo amor la alletta:

s'unisce, la simpatica ragazza,

col conte di Bothwell, che le dà retta

e per ordine suo lo sposo ammazza.

Imprigionata, fugge: Elisabetta

l'accoglie in casa sua, ma quella pazza

si mette a congiurar contro lei pure

e quindi va a finir sotto la scure.

 

E' un'epoca crudele, un po' balzana,

certo, ma l'arte rifiorisce in pieno:

è un'età, quella, in cui la razza umana

uno Shakespeare esprime dal suo seno;

in cui la poesia regna sovrana,

entusiasmando un popolo sereno,

e, a parte qualche piccolo massacro,

bella è la vita ed il pensiero è sacro.

 

Non sul Parnaso mitico o solenne:

a Londra, ormai, le Muse hanno soggiorno ...

Ma Elisabetta invecchia (è settantenne),

per quanto fino all'ultimo suo giorno

ami atteggiarsi sempre a minorenne,

abbia di rose e mirti il capo adorno,

danzi, si tinga e con l'amore giostri,

come fanno le vecchie ai tempi nostri...

 

XXVI

I RE STUART

 

In Inghilterra, grande era il prestigio

dei re, pur senza guardie né caserme:

sinceramente il popolo era ligio

ad una monarchia del tutto inerme.

Il fatto, indubbiamente, ha del prodigio,

se si pensa che, invece, assai malferme

erano altrove le corone aurate

su certe teste un po' sconc1usionate.

 

Ciò avviene perché i re, già da lunghi anni,

non sono come altrove, in Inghilterra,

solo dei ciechi ed avidi tiranni,

arbitri della pace e della guerra,

Lo stesso Enrico ottavo ordisce inganni,

spoglia altari e abbazie, mogli sotterra,

ma sempre manovrando uno strumento

che già al popolo è sacro: il Parlamento.

 

Adesso arriva un re: Giacomo sesto

di Scozia e primo d'Inghilterra;

è saggio, passabilmente equanime ed onesto,

e lo accoglie in tripudio ogni villaggio;

però, non è un inglese, e compie un gesto

che piace poco assai: lungo il viaggio,

fa impiccar dalle guardie un criminale

senza processo. Cominciamo male!...

 

Adolescente, aveva partorito.

due libri di politica, nei quali

ribadiva un principio alquanto ardito,

degno di tempi assai più primordiali:

il re, secondo lui, viene investito

da Dio soltanto e i semplici mortali

devon cieca obbedienza a chi li regge,

ch'è sopra e fuori di qualsiasi legge.

 

La comoda dottrina era indicata

per una Scozia ruvida e ribelle;

ma l'Inghilterra ormai da lunga data

si sente libertaria per la pelle.

Sperando, quella testa coronata,

d'esser portata subito alle stelle,

a Londra il suo pensier spiffera a un tratto;

gli rispondon così: - Ma tu sei matto! -

 

Fra l'altro, è assai ridicolo, un po' zotico,

né manca d'abitudini plebee,

malgrado il suo carattere dispotico

e le sue strane e capricciose idee;

parla a fatica ed il suo accento esotico

diverte immensamente le assemblee,

mentr'egli crede, col suo dotto verbo,

di trascinar quel popolo superbo.

 

Ma, in fondo, è un uomo saggio e, bene o male,

al voler dei suoi sudditi si piega;

per lui la pace è l'unico ideale

e cerca d'evitar qualsiasi bega;

è pel protestantesimo ufficiale,

ma il suo appoggio ai cattolici non nega

e, mentre è in guerra tutto il continente,

egli rimane calmo e indifferente.

 

Intanto, pur essendo uno scozzese,

ha mani larghe, è uno bello spendaccione;

per i gioielli, poi, non bada a spese,

e gli servon denari a profusione;

e, poi che il Parlamento a più riprese

boccia una tassa che quel re propone,

(invan da quell'idea lo si distoglie:

« Pensaci Giacomino! »), egli lo scioglie.

 

XXVII

GIACOMO PRIMO

 

Per questo o quel motivo, in permanenza

la sciagurata Europa è senza pace:

uno (guardate un po' che prepotenza!)

non può adorare il Dio che più gli piace;

l'Austria e la Spagna vogliono d'urgenza

imporre ai protestanti il dio verace,

che poi, secondo loro, è il dio cattolico:

chi in lui non crede è un essere diabolico.

 

Quei due potenti stati hanno attaccato

- appunto perchè Dio chiede vendetta

­l'Elettor Palatino, un «riformato »,

e la Boemia, ch'è da lui protetta.

Il giovane Elettore, che ha sposato

la figlia del re inglese, Elisabetta,

spera che il vecchio suocero l'assista,

ma quel sovrano è un bel panciafichista.

 

Ha della guerra un sacrosanto orrore,

è impreparato a un simile cimento.

Intanto, in preda a un mistico furore,

il popolo reclama l'intervento,

e Giacomo si vede, a malincuore,

costretto a convocare il Parlamento,

pur sapendo però, pronto a barare,

che finirà col far come gli pare.

 

Il Parlamento coglie l'occasione

per rinfacciare al re vari soprusi:

cariche date a qualche trafficone,

monopolii venduti ed altri abusi.

Al cancelliere - il debole Bacone,

che ubbidiva al monarca ad occhi chiusi-

­son confiscati i beni, ed il re stesso

è sotto la minaccia d'un processo.

 

A nome, poi, di tutta l'Inghilterra,

la Camera pretende che alla Spagna

sia dichiarata subito la guerra,

mentre non vuole il re quella campagna,

e al Parlamento, che i suoi strali sferra

e di quella politica si lagna,

obietta furibondo: - Ma, per Dio,

s'informino, signori: il re son io!-


 

Risponde il Parlamento: - Il nostro regno

non ammette regimi autoritari;

il re sei tu, ma sol se ne sei degno

e se gl'Inglesi non ti son contrari.-

Giacomo primo, allor, con molto sdegno

arresta i deputati libertari

e dice agli altri, nel cacciarli fuori:

- Fatevi i fatti vostri o son dolori! -

 

Giorgio Villiers, un giovane spiantato,

ma la cui gran beltà par che seduca

il capriccioso re, viene creato

barone, conte, poi marchese, duca

di Buckingham e consiglier di stato;

di cancelliere, infine, ha la feluca:

è un favorito ligio al suo sovrano,

che fa con lui sciocchezze a tutto spiano.

 

I deputati, dunque, son d'avviso

di far guerra alla Spagna? Il re non solo

non farà quella guerra, ma è deciso

a imparentarsi con il re spagnolo.

Dal bel duca il parere è condiviso:

Giacomo darà in moglie, al suo figliolo

Carlo, l'Infanta. Un colpo a tradimento,

che taglierà le gambe al Parlamento...

 

Ma basta che la Camera s'aduni

perché il conflitto scoppi aspro e tremendo:

un oratore, a nome dei Comuni,

si scaglia contro il duca, sostenendo

ch'è un imbecille. Trova inopportuni

il re certi discorsi: - Io non intendo

- dichiara - che la Camera discuta

l'opra d'un mio ministro. - E la saluta.

 

XXIX

I PURITANI

 

Ma in Inghilterra il popolo sorregge

il Parlamento e contrastarlo è vano,

onde una nuova Camera s'elegge,

in cui domina il dogma puritano.

Essa compila subito una legge,

che limita i diritti del sovrano

e gli nega un esercito che sia

solo strumento della tirannia.

 

Il duca, che del re fa un suo pupazzo,

è ucciso a pugnalate: il popolino

urla di gioia, e il re dal suo palazzo

sente levar gli osanna all'assassino.

Al fine d'evitar ogni schiamazzo,

scesa la notte, in modo clandestino

è sotterrato, come un delinquente,

quell'uomo già acclamato e onnipotente.

 

E nel milleseicentoventinove

quel Parlamento, che Carletto aborre,

discute e approva alcune leggi nuove

contro il papismo e tutte le camorre.

Impugna allor la folgore di Giove

re Carlo primo e caccia nella Torre

i membri più accaniti ed influenti,

guidato da due uomini potenti.

 

Son questi un nobiluomo ed un prelato:

Strafford e Land. Il primo è un uomo onesto,

dedito solo al bene dello stato,

ma il volere del re per lui fa testo.

Fu, tempo prima, anch'egli deputato,

amico dei ribelli, ed è per questo

che il Parlamento, pieno di livore,

lo considera adesso un traditore.

 

L'arcivescovo Land, anima dura,

è un uomo che detesta i puritani,

assoggetta i sermoni alla censura,

impone i vecchi riti agli anglicani

e in fondo, se non brucia e non tortura,

rifuggendo da metodi inumani,

asfissia quella povera nazione

e vuol che il re la faccia da padrone.

 

Ma non ha la statura d'un tiranno,

povero Carlo, e la maniera forte

non gli s'addice. I più, di lui diranno

ch'è un disgraziato: vive nella corte

smarrito e solitario per qualche anno,

insieme alla sua piccola consorte,

sol ricevendo in quei saloni austeri

i suoi due fidi e arcigni consiglieri.

 

E i cittadini muoion dalla noia;

la censura imperversa; ai libellisti,

che in tutto il regno pullulano, il boia

mozza le orecchie a gioia dei papisti.

Tace avvilito il popolo ed ingoia

i sermoni di Land aridi e tristi,

mentre per far quattrini (e son batoste!)

il re ricorre ad arbitrarie imposte.

 

Per fuggir quella vita poco gaia,

solo una strada ai disperati è aperta;

e i puritani salpano a migliaia

pei lidi dell'America deserta.

E' da qual seme, su un'ignota baia

un dì piovuto in un'aurora incerta

col libro della Bibbia e coi vangeli,

che nasceran le Ford e i grattacieli.

 

XXX

LA RIVOLUZIONE

 

Adesso l'arcivescovo anglicano

vuole imporre i suoi riti agli scozzesi,

che insorgon tutti, a quel decreto insano,

dai contadini ai nobili ai borghesi.

Inutilmente il povero sovrano

cerca milizie fra i vassalli inglesi:

solo la Scozia ancor, nel Regno Unito,

dispone d'un esercito agguerrito.

 

Per fronteggiare i pubblici malanni,

Carlo un consiglio illuminato ascolta

e finalmente, dopo dodici anni,

convoca il Parlamento un'altra volta.

Questo si scaglia contro i tre tiranni

- il re, Strafford e Land - a briglia sciolta:

dopo diciotto giorni, il malaccorto

Carlo lo scioglie: è il «Parlamento corto ».

 

Ma, vinto dall'esercito scozzese,

che invade già le nordiche contee

e che per far ritorno al suo paese

chiede d'indennità molte ghinee,

re Carlo, per far fronte a tante spese,

rinunzia infine a certe strane idee

e si decide al duro esperimento

di convocare un nuovo Parlamento.

 

E' un Parlamento rivoluzionario,

benché composto d'ottimi signori,

ma quasi tutti di parer contrario

a Carlo primo e ai suoi sostenitori.

Essi non voglion che sanar l'erario,

eliminar dissidi e malumori,

da cui da tempo l'Inghilterra è invasa,

votar le leggi e ritornare a casa.

 

Ma si sente nell'aula una diffusa

febbre d'insofferenza: il Parlamento,

tanto per cominciar, Strafford accusa

di concussione e d'alto tradimento,

e lo condanna a morte. Il re ricusa,

mentre schiamazza il popolo in fermento,

di firmar la sentenza indelicata,

che già i pavidi Lords hanno votata.

 

Promise al cancellier salva la vita,

Carlo, ma preti ed uomini di marca,

pur di placar la folla imbestialita,

a far giustizia incitano il monarca,

che si piega, con l'anima smarrita,

a far tagliar la testa al gran gerarca.

Questi, sul palco del supplizio orrendo:

- Vatti a fidar d'un re! - dice morendo.

 

A un tratto, ordina Carlo che i più accesi

fra i deputati dell'opposizione

siano arrestati. I bravi londinesi,

con un atto d'aperta ribellione,

scendono in piazza; militi e borghesi

son tutti uniti contro il re fellone,

il quale, in cerca di più miti cieli,

fugge con pochi «pari» a lui fedeli.

 

E' a Nottingham il re, dove s'è spinto

coi suoi seguaci e leva il suo stendardo

di guerra alla riscossa: è un uomo finto,

non cattivo però, non infingardo;

soprattutto, è un maniaco ed è convinto

- re consacrato, autocrate testardo ­

che Dio sia dalla sua, mentre talvolta

si schiera Dio col popolo in rivolta.

 

XXXI

LA GUERRA CIVILE

 

Scarsa è la gente che pel re parteggia,

con truppe mal pagate e armate male.

Il re trasporta ad Oxford la sua reggia

e ne fa la sua nuova capitale;

ivi la corte frivola folleggia

nelle fastose ed accoglienti sale,

fra belle dame e allegri cavalieri,

per far dispetto ai puritani austeri.

 

Son poco numerosi anche gl'insorti,

ma han dalla loro i prodighi mercanti,

che accusan Carlo dei subìti torti

e che son tutti accesi protestanti.

Son pur con loro gli scozzesi, forti

di trentamila cavalieri e fanti:

e a Marston Moor, in un combattimento,

ha la prima vittoria il Parlamento.

 

In quello scontro spicca per valore

e per tenacia un semplice soldato:

non era che un modesto agricoltore,

già varie volte eletto deputato;

mistico irrequieto e sognatore,

puritano convinto e appassionato,

idealista ardente e battagliero,

diventa un capo: è Cromwell Oliviero.

 

Egli addestra un esercito pugnace,

uomini tutti di provata fede,

con cui sconfigge il re. Questi, tenace,

fugge, ma: - Il re son io! - dice e non cede.

Però il popolo è stanco e vuol la pace:

un ritorno al buon senso, altro non chiede,

ed il ritorno, smesso ogni rancore,

alle buone maniere e al buonumore.

 

Ma il Parlamento, dopo la vittoria,

diventa quasi un'altra autocrazia.

Cromwell ne vuol domar l'ingrata boria,

mentre, fra l'una e l'altra avemaria,

cova il sogno di Cesare. E' la storia

che si ripete con monotonia:

colui che si levò contro il tiranno

siederà poi su quello stesso scanno.

 

La Camera, nel proprio smarrimento,

tratta col vinto re, suo prigioniero,

che temporeggia e, pronto al tradimento,

cerca di complottar con lo straniero.

L'esercito è indignato: il Parlamento

non vuol pagargli il soldo. Onde Oliviero

chiede consiglio a Dio, sempre devoto,

e contro l'assemblea si mette in moto.

 

Un bel mattino, un pugno di soldati

si piazza di buon'ora nel portone

del Parlamento e arresta i deputati

sospetti di contraria opinione;

solo cinquanta, gli addomesticati,

pronti a votar ciò che Oliviero impone,

fanno ingresso nell'aula a capo chino,

formando un Parlamento comodino.

 

Ispirato da Dio (dice lui stesso)

Cromwell accusa il re, sulla cui sorte

non vi san dubbi più: dopo un processo,

lo sciagurato è condannato a morte.

Carlo sostiene che il verdetto emesso

non è legale; poi, placido e forte,

sale sul palco ed invocato Dio:

«Però, - muore dicendo, - il re son io! ».

 

XXXII

LA DITTATURA DI CR0MWELL

 

Il re soppresso, il Parlamento vinto,

al silenzio ridotto ogni avversario;

il paese, però, quasi d'istinto,

aborre quel governo autoritario.

Ma non importa: Cromwell è convinto

ch'egli ha di Dio la spada: è necessario

saper brandire quella santa spada

perché i ribelli sian tenuti a bada.

 

Fissato malinconico ed austero,

sicuro d'ubbidire a un verbo sacro,

fa primamente, il fosco condottiero,

degl'Irlandesi un tragico massacro:

non lascia a quel paese ardito e fiero

di libertà neppure un simulacro,

e fin da allora «al ciel gemiti manda

la divisa dal mondo ultima Irlanda».

 

Il popolo di Scozia, furibondo

per l'assassinio di quel re scozzese,

minaccia intanto un vero finimondo

e contrappone al dittatore inglese,

proclamandolo re, Carlo secondo,

figlio del giustiziato. In qualche mese,

con estrema energia la Scozia invasa,

Cromwell fa pure lì tabula rasa.

 

Mentre il secondo Carlo in fuga è volto

e riesce a scampar nel continente,

reduce a Londra, il dittator v'è accolto

con frenesia dal popolo plaudente.

Ma ciò non lo lusinga: è triste in volto,

e a chi gli fa osservar: «Ma quanta gente! »

così risponde il mistico tiranno:

«Vedrete il giorno in cui m'impiccheranno! ».

 

Non fu impiccato. In fondo, tutti quanti

detestano in cuor loro il dittatore,

che -vuol foggiar un popolo di santi,

fa recitar preghiere a tutte l'ore,

chiude i teatri, arresta i commedianti,

rende i giorni di festa uno squallore,

fa d'ogni essere umano un cenobita,

ma è proclamato «protettore» a vita.

 

Lettura della Bibbia obbligatoria,

sermoni, litanie: la gente è a terra,

con contorno, però, d'epica gloria:

la flotta entra a Dunkerque e a Gibilterra

e contro gli Olandesi ha la vittoria;

quel Cromwell sembra un fulmine di guerra.

Con tutto questo, il popolo, lui morto,

gl'innalza statue, sì, ma che conforto! _

 

Da un anno appena al cielo egli è salito,

e già al figlio del re decapitato

offre il popolo in festa il trono avito,

innalzandogli osanna a perdifiato.

L'antico protettor, disseppellito,

lo stesso innanzi a cui l'anno passato

bruciava il sacro incenso ogni turibolo,

è sotterrato ai piedi del patibolo!

 

E aveva avuto un'anima diritta:

arcigno sì, ma nobile tiranno;

né aveva su una patria derelitta

regnato col terrore e con l'inganno,

né portato il paese alla sconfitta,

né perduto ogni onor, come faranno,

con le bandiere e i gagliardetti al vento,

i dittatori tipo Novecento.

 

XXXIII

LA RESTAURAZIONE

 

A Londra si respira un nuovo clima,

dopo tanti anni d'incubo e di noia:

rinasce - né c'è più chi la reprima

­la fede nella vita e nella gioia.

La stessa folla, che undici anni prima

maledì Carlo, adesso applaude il boia

che fa saltar la testa ai giustizieri

del «martire », l'autocrate di ieri.

 

Ma il nuovo re, longanime e clemente,

fa condannar soltanto i regicidi.

E' un uomo raffinato e intelligente:

non vuol nemici lui, non vuol fastidi.

Mentre è in cuor suo cattolico fervente,

si mostra tale innanzi a pochi fidi,

né intende imporre agli altri il proprio «credo »,

col rischio che ... lo mandino in congedo.

 

Londra l'ha accolto pavesata a festa:

ma, tra clamori isterici e selvaggi,

suo padre un giorno vi lasciò la testa;

lui stesso, poi, nei suoi pellegrinaggi

conobbe la miseria più funesta,

per cui nutre i propositi più saggi

e, se un'insegna gli si vuole ascrivere,

è questa: viver bene e lasciar vivere.

 

Nella sua corte, cinica e mondana,

il re non è che un gaio avventuriero

che corre dietro ad ogni cortigiana,

senza darsi, per ora, altro pensiero.

La scontrosa saggezza puritana

sembra il ricordo d'un passato nero:

viene bandita la musoneria,

è tempo di baldoria e d'allegria.

 

Re Carlo, nel seicentosessantuno,

convoca il Parlamento: questa volta,

Westminster vede un placido raduno

di gente mite rispettosa e colta;

son quasi tutti giovani e nessuno

ha per la testa grilli di rivolta.

Ecco un consesso che al monarca garba:

- Lo terrò - dice - finché avrà la barba. -

 

Infatti, lo terrà per diciott'anni.

Acceso ammiratore del Re Sole,

egli è convinto, ormai, che sui Britanni

può imperare anche lui come più vuole.

Ma l'Inghilterra ha orrore dei tiranni:

giustizia e libertà son due parole

che ormai nessun regime autoritario

cancellerà, lassù, dal dizionario.

 

Il re chiede un esercito, ma invano:

sembravan così teneri e devoti,

e intanto alle pretese del sovrano

quei giovani - com'è? - negano i voti.

Re Carlo si rassegna ed al suo piano

rinunzia per timor di nuovi moti:

ha innanzi agli occhi, tragico e fatale,

lo spettro del papà, finito male.

 

Si forman ora in seno al Parlamento

due partiti dinamici e contrari:

l'uno dei tories, tutti, pel momento,

fedeli al re, papisti, autoritari;

l'altro, dei whigs, i quali, al loro avvento,

son per lo più ribelli e libertari.

Fra i due partiti un'ira cieca esplode,

e fra i due litiganti il terzo gode.

 

 

XXXIV

GIACOMO II E GUGLIELMO D'ORANGE

 

Il « terzo » è il re. L'antico vagabondo

sa condurre una giostra abile e astuta

fra i due partiti e, andando all'altro mondo,

lascia una monarchia quasi assoluta.

Ma suo fratello, Giacomo secondo,

che a lui succede, è un'anima cocciuta,

che sdegna i compromessi: ecco uno sbaglio,

ch'obbliga un re, talvolta, a far bagaglio.

 

Stuart in tutto, duro e intransigente,

per diritto divino egli è sovrano;

sdegna perciò, pomposo e onnipotente,

la scaltra bonomìa del suo germano:

vuol che il paese torni integralmente

cattolico apostolico romano;

vuol comandar il popolo a suo estro,

ritornando alla frusta ed al capestro.

 

Non appena sul trono egli è salito,

ogni potere al Parlamento toglie;

i whigs, allor, rivolgono un invito

a Guglielmo d'Orange, che l'accoglie:

e il re d'Olanda, giovane ed ardito,

che una figlia di Giacomo ha per moglie.

Insieme a questa in Inghilterra sbarca

e con lei prende il posto del monarca.

 

Entusiasmati, il popolo ed i pari

si stringon tutti intorno al suo vessillo.

Giacomo fugge insieme ai familiari,

gettando nel Tamigi il «gran sigillo»:

«Così non posson più sbrigar gli affari»

soddisfatto egli dice e sto tranquillo ».

Come vedete, è un uomo poco scaltro:

perso un sigillo, se ne stampa un altro.

 

Incoronato re nell'ottantotto,

quell'olandese è un uomo saggio e duro,

ed in quel tempo frivolo e corrotto

egli stupisce tutti: è quasi un puro.

Ma Giacomo lavora sotto sotto,

mentre a Parigi se ne sta al sicuro,

dove il Re Sole, che gli tien bordone,

al nuovo re vuol dare una lezione.

 

Obbligato per anni a guerreggiare,

Guglielmo terzo i suoi nemici atterra

e diviene famoso e popolare,

perché sotto il suo regno, in piena guerra,

nascon la monarchia parlamentare

e la potente Banca d'Inghilterra,

che, senza fare il viso trucibondo,

conquisteran fra breve mezzo mondo.

 

Il re non può più fare il padreterno

e trasformarsi in despota e in tiranno,

ma deve solo scegliersi un governo,

che gli stessi Comuni esprimeranno:

d'ora innanzi, al poter, con gioco alterno,

i whigs e i tories s'avvicenderanno,

a seconda che avrà nel Parlamento

l'uno o l'altro partito il sopravvento.

 

La Banca presta soldi, ad interesse,

al governo e ai privati, ed ha il potere

di stampar carta in base alle sue stesse

disponibilità; ma è da sapere

ch'erano allor, le banconote emesse,

rimborsabili in oro (oggi, un banchiere,

se gli presenti quella carta straccia

e chiedi in cambio l'or, ti ride in faccia!).

 

XXXV

ANNA STUARDA E GIOVANNI CHURCHILL

 

Carlo di Spagna, da più mali afflitto

sta per morire senza discendenti,

e su quel trono accampano il diritto

molti fra illustri e ignoti pretendenti.

E' quindi in vista il solito conflitto:

uno, per quell'età, fra i più cruenti.

E tanto sangue, ahimè, tanto frastuono,

perché un qualsiasi re salga sul trono!

 

Carlo, morendo, lascia un testamento

con cui dispone che il suo scettro vada

a un principe francese, e questo evento

spinge Guglielmo a risnudar la spada,

dato che tanto il re che il Parlamento

non posson tollerar che questo accada:

ove la Francia sulla Spagna imperi,

si rompe 1'« equilibrio dei poteri ».

 

Ma re Guglielmo muore e una regina

succede a lui sul trono: Anna Stuarda,

ch'è una figlia di Giacomo, meschina,

terribilmente stupida e testarda;

ma in Inghilterra, per virtù divina,

non manca mai qualche anima gagliarda

che, quando l'ora del periglio suona,

sorge a salvar la patria e la corona.

 

Figlio d'un gentiluomo di campagna,

Giovanni Churchill, grazie a una sorella

ch'era amante del re di Gran Bretagna,

diventò paggio: ha facile favella,

è un bel ragazzo e presto si guadagna

favori e simpatie; da una gonnella riceve

in dono, in barba alla morale,

cinquemila sterline: un capitale.

 

Sulla morale ha idee poco complesse:

dà quel denaro in prestito ad usura

o, per lo meno, a un ottimo interesse,

che un discreto guadagno gli assicura.

Da ufficiale del re, sembra che desse

molte prove di senno e di bravura;

comunque, è un fatto che l'arrivo d'Anna

rappresenta per lui più che una manna.

 

La capricciosa donna s'innamora

d'una ragazza, Sara, che diviene

moglie di Churchill: grazie alla signora,

nuove ricchezze e cariche egli ottiene,

fin ch'è creato, non illustre ancora,

duca di Marlborough. A volte, avviene

che l'ingrato mestiere di marito

sia, dopo tutto, il più retribuito.

 

Ma se Dio, la regina e la consorte

gli son benigni e il titolo ducale

dal ciel gli piove, è un uomo che la sorte

dotava d'una tempra eccezionale:

pieno di fantasia, tenace e forte,

è un condottiero intrepido e geniale,

che, piegando il Re Sole e la sua boria,

porta il piccolo regno alla vittoria.

 

Dopo la guerra, che durò dieci anni

come quella di Troia, l'ascendente

che il dittatore aveva sui Britanni

dilegua a un tratto inesorabilmente.

Si teme un nuovo Cromwell, e Giovanni

è costretto a scampar sul continente;

né la moglie, invecchiata, ormai gli giova:

c'e un'altra lady, favorita nuova.

 

 

XXXVI

I RE DI HANNOVER

GIORGIO PRIMO

 

Benché gli dian gl'Inglesi dell'infame

e contro lui reclamino la forca .

(la politica, ahimè, con le sue trame

è stata sempre una faccenda sporca),

mercè l'opra di Churchill, il reame

acquista Gibilterra, oltre a Minorca,

e ottiene, grazie al calunniato lord,

dei porti nell'America del Nord.

 

Ottiene, inoltre, alcuni privilegi

nei porti dell'America latina,

dove già all'ombra dei vessilli regi

comincia a bazzicar la sua marina

e i suoi prodotti, i quali han molti pregi,

come pregiata è pur la sua sterlina.

Anna, con tutto ciò, ricca e potente,

scoccata l'ora sua, muore ugualmente.

 

Poiché la legge vuol che il successore

sia protestante, del nascente impero

spetta lo scettro al placido Elettore

d'Hannover, Giorgio primo: è uno straniero,

non brilla per ingegno e per valore,

non è un audace e scaltro avventuriero,

non ha sogni di gloria: unica dote,

di re Giacomo primo è un pronipote.

 

A cosa serva un re, non ha un'idea;

ama le donne molto esuberanti;

tradito dalla moglie Dorotea,

si riconforta con diverse amanti.

La complessa politica europea

affida a dei ministri benpensanti:

in quanto a lui, piovuto fra i Britanni,

non sa neppur l'inglese; e ha cinquant'anni.

 

Non si scompone e pensa alla salute,

piuttosto che agli affari d'Inghilterra;

non assiste nemmeno alle sedute

del Consiglio di Stato: non afferra

nulla di quello che vi si discute,

si tratti di politica o di guerra;

si limita, tranquillo e sorridente,

a dir yes o god-bye semplicemente.

 

Mancando il re che il suo giudizio esprima,

deve un uomo dirigere il concerto;

questo incarico spetta, a tutta prima,

a Roberto Walpole: ha, sir Roberto,

un gran cervello e gode della stima

universale: astuto, abile, esperto,

capeggia i whigs e dà per ventun anno

pace e ricchezza al popolo britanno.

 

Questo Walpole è un uomo fra i più saggi

e non ama i pericoli e i cimenti;

ma gl'Inglesi, incuorati dai vantaggi

avuti dalle guerre precedenti,

han buone navi ed ottimi equipaggi

e si fan sempre un po' più prepotenti,

nei dominii spagnoli esercitando

uno sfacciato e aperto contrabbando.

 

Ma Spagnoli in servizio di vedetta

mozzavano un orecchio al capitano

d'una nave britannica, diretta

verso un approdo sud-americano.

Questi va a Londra a chiedere vendetta

per quell'atto oltraggioso e disumano,

mostrando agli onorevoli in fermento

l'orecchio mozzo in pieno Parlamento.

 

XXXVII

LA GUERRA DEI SETTE ANNI

GUGLIEMO PITT

 

Walpole, che il nuovo re Giorgio secondo

riconfermò « Premier» di Gran Bretagna,

non dà peso al fattaccio: uomo di mondo,

risolve la questione con la Spagna.

Ma il Parlamento inglese è furibondo,

chiede la guerra; il popolo si lagna:

« Qui si fan - dice - troppe cerimonie! »

Ma il fatto è un altro: ha sete di colonie.

 

Walpole va via. La miccia è presto accesa:

pretesto, la Prammatica Sanzione,

un atto grazie a cui Maria Teresa

ha Belgio e Italia in sua giurisdizione,

nonché l'impero d'Austria: un'Austria estesa

a tutto il centro-Europa, al che s'oppone

Federico secondo, il re prussiano,

che vuol la Slesia e la reclama invano.

 

La Francia è con la Prussia; l'Inghilterra

affianca l'Austria, a cui versa denari.

Ma quei Prussiani sanno far la guerra:

Londra è nei guai, benché, forte sui mari,

pur se non ha un esercito di terra,

disponga di magnifici corsari,

che ovunque, audaci e attivi avventurieri,

dànno ai Francesi molti dispiaceri.

 

Nel Canadà, nell'India e in ogni parte

dove posson lottare, Angli e Francesi

si van sferrando i fulmini di Marte,

d'odio d'invidia e di livore accesi:

soprattutto nell'India, ove con arte

ben presto a imporsi riusciran gl'Inglesi

ed aumentar potranno i loro pasti

con quell'impero tra i più ricchi e vasti.

 

Son ben ott'anni ormai che si battaglia,

quando quei bravi re firman d'un botto

la pace d'Aquisgrana; è la Versaglia

del millesettecentoquarantotto:

scontenta tutti, mentre la mitraglia

nelle colonie, in modo ininterrotto,

continua ad infuriare. E gli Europei

si riazzuffan nel cinquantasei.

 

Ma, non divisi più dall'odio antico,

s'allean fra di lor l'Austria e la Francia;

re Giorgio, ammirator di Federico,

per questa nuova giostra a sè lo aggancia:

così, contro il Borbon che gli è nemico,

con l'oro getterà sulla bilancia

il ferro d'un superbo combattente,

che pugnerà per lui sul continente.

 

Si schierano però contro i Britanni,

coi Franco-Austriaci, i Russi e gli Svedesi;

e scoppia quella guerra dei Sette Anni

che coinvolge, così, tutti i paesi.

Grandi rovesci e fieri disinganni

a dura prova mettono gli Inglesi,

che son perduti, quando a Downing Street

s'insedia un uomo: tal Guglielmo Pitt.

 

Di un'eloquenza calda ed irruente,

è nato per l'azione e per la lotta;

onesto; scrupoloso e intransigente,

stupisce tutti in quell'età corrotta.

Il re teme quell'uomo, un prepotente

che vuol far tutto lui, benché la gotta

lo inchiodi spesso a letto: eppure - è strano-

­camminerà lo stesso e andrà lontano.

 

XXXVIII

LA VITTORIA INGLESE E LA PACE DI PARIGI

 

Le cose vanno male. Il maresciallo

di Francia, Richelieu, Minorca espugna,

mentre l'intera Europa entra nel ballo

e l'armi, adesso, contro Londra impugna.

Questa vede l'Hannover, suo vassallo,

vinto ed invaso dopo un'aspra pugna:

la vecchia Francia di Giovanna d'Arco

la vendetta assapora e vuol lo sbarco.

 

La Prussia sta per essere travolta;

discordie fra i Britannici atterriti;

in India, tutti i principi in rivolta;

i coloni d'America assaliti.

Guglielmo Pitt il popolo a raccolta

chiama, sedando gli odii fra i partiti,

e appresta gli armamenti necessari,

dominando la gotta e gli avversari.

 

Non è un uomo, è un demonio,e alla bisogna

giovar può solo un uomo del suo stampo;

fin da ragazzo ancor, non altro sogna:

piegar la Francia e più non darle scampo.

Inventa il blocco e inventa la menzogna

a scopo propaganda (in questo campo,

centottant'anni dopo, al suo cospetto,

Göbbels sarà soltanto un organetto).

 

E la flotta francese è sbaragliata,

Federico trionfa, l'Inghilterra

vince nel Canadà, l'India è domata,

l'Austria non ne può più, la Francia è a terra.

Vorrebbe adesso Pitt, all'impensata,

anche alla Spagna dichiarar la guerra:

«Così quegli Spagnoli impareranno

a stuzzicare il popolo britanno ».

 

Dopo Giorgio secondo, al trono arriva,

però, re Giorgio terzo, suo nipote:

in fatto di governo, egli coltiva

le idee degli Stuardi, un po' remote.

Fa il re quel Pitt ha troppa iniziativa:

la simpatia di Giorgio non riscuote;

e poi la stessa Camera ha paura:

bisogna liquidar quell'avventura!

 

Il re sostituisce il dittatore

con uno dei suoi fidi cortigiani:

pensa anche lui che, in grazia del Signore,

il comando non spetta che ai sovrani.

Ma ormai la Francia è vinta e a malincuore

rinunzia ai territori americani,

sognando la revanche ... E' la sua storia:

ad ogni calcio sogna una vittoria.

 

La «Pace di Parigi» è molto dura,

un brutto colpo che la Francia svena;

però, Pitt intendeva addirittura

cancellar quel paese dalla scena,

mentre - non per pietà - Londra assicura

la vita ai vinti, e spesso, non appena

della vittoria suonano le trombe,

aiuta la potenza che soccombe.

 

Inutilmente Pitt, il gran ribelle,

corre ai Comuni, con i suoi guantoni

di lana, curvo sulle sue stampelle,

reclamando la fine dei Borboni

ed una Francia eternamente imbelle;

egli spreca i suoi fulmini e i suoi tuoni:

le sue parole sono prese a scherzo.

il re non è più Pitt, è Giorgio terzo.

 

XXXIX

PERDITA DELLE COLONIE AMERICANE

 

Sfidando il malcontento popolare,

Giorgio allontana i whigs intransigenti;

spregia la monarchia parlamentare,

corrompe oppositori e dissidenti:

non vuol far solo il re, vuol governare

da sè, secondo i propri intendimenti,

ed ubbidendo a quel pensiero fisso

conduce il regno all'orlo d'un abisso.

 

Terminata la guerra dei Sette Anni,

temendo una rivolta canadese,

devon nel Nord-America i Britanni

mantener truppe: a un terzo delle spese

dovranno, ricchi, grassi e senz'affanni,

concorrer gli abitanti del paese.

E fioccano così le prime tasse

sul té, sul vetro. e poi sulle melasse.

 

Ma a toccar quella gente nella tasca,

signori miei, son guai! «Che facce toste! »,

si protestò dall'Hudson all'Alaska:

« Oltre a sfruttarci, vogliono le imposte ».

Dinanzi al minacciar della burrasca,

a Londra le tendenze erano opposte,

finché Pitt intervenne in quella lite

e allor le tasse furono abolite.

 

Ma Giorgio, autoritario ed ostinato,

per salvare il principio unicamente,

lascia un'umile imposta, che allo stato,

in fondo in fondo, non rendeva niente;

ma, appunto, era il principio sullodato

che non garbava affatto a quella gente,

e per due soldi il sire autoritario

perde, un impero di parer contrario.

 

Perché gli Americani, all'improvviso,

corrono all'armi: grande è l'ardimento.

Gl'Inglesi, con un placido sorriso,

s'illudon di domarli in un momento;

ma il generale Washington, deciso,

avendo appena qualche reggimento,

li affronta, sbaragliandoli d'urgenza

e proclamando poi l'indipendenza.

 

La Francia nella mischia anche si getta

contro Londra sorpresa e impreparata,

dopo essersi di nuovo, in tutta fretta,

provvista d'una flotta bene armata,

ed ottiene così la sua vendetta

sull'Inghilterra vinta ed umiliata,

ma a caro prezzo: il suo tesoro è esausto;

s'appressa per Luigi un giorno infausto.

 

Intanto Londra è a terra: il suo mondiale

prestigio sfuma, il popolo è avvilito;

il vecchio Pitt è morto all'ospedale;

lo sciagurato re sembra impazzito:

gesticola da solo, in un viale

del parco, innanzi a un albero fiorito,

in cui saluta col cappello in mano,

Federico secondo, il re prussiano.

Re Giorgio, non ancor del tutto pazzo,

chiama al potere un uomo intelligente:

il figliolo di Pitt; ancor ragazzo,

ma, come il padre, energico, eloquente,

egli deplora il disastroso andazzo,

ed un programma di riforme ha in mente,

quando a Parigi accade il parapiglia:

il popolino prende la Bastiglia.

 

XL

LA RIVOLUZIONE FRANCESE NAPOLEONE

 

Vedon pochi, dapprima, in quella data

l'inizio d'una splendida epopea:

contro la tirannia s'è scatenata,'

con sublime furor, l'ira plebea.

Passa la Libertà, vergine alata,

spargendo il seme d'una grande idea,

ch'è destinata a incenerir, negli anni,

tutte le schiavitù, tutti i tiranni.

 

Nei primi tempi, molto compiacente,

Londra incoraggia i rivoluzionari,

pensando che i francesi, finalmente,

antichi e irreducibili avversari,

non avran voce più nel continente,

in mano a quei fanatici settari.

Lo stesso Pitt esclama, addirittura:

«Possiamo disarmar senza paura ».

 

Ma già in Europa la rivoluzione

corre, sull'ali della « marsigliese»:

fuggono i vinti re sotto il cannone

degli « sbracati »; il popolo francese

intona il suo Ça-ira: la Convenzione,

terribile assemblea di teste accese,

minaccia il mondo ed ai monarchi lancia

la testa d'un collega: il re di Francia.

 

Allorché trionfar vede l'audacia,

la fede e la ferocia giacobina,

e la vittoria il tricolore bacia

tra i foschi guizzi della ghigliottina,

Pitt entra in campo con la sua tenacia,

col suo denaro e con la sua marina:

forse, più che timor delle idee nuove,

è sete di colonie che lo muove.

 

Ma quando un nuovo eroe, Napoleone,

sorge e alla nuova Francia offre un impero,

e in breve tempo sotto il suo tallone

trema prostrato il continente intero,

non ha più pace Pitt e si propone

di liquidare quell'« avventuriero ».

E' allor che Londra alle nazioni unite

lancia il suo grido: «Armiamoci e partite! ».

 

E come fece già contro Luigi,

con un metodo allor molto efficace,

paga ed arma l'Europa; ma prodigi

fa il grande condottier, sempre più audace:

col trattato d'Amiens, detta Parigi

a Londra e al mondo un'umiliante pace,

che dura poco, ahimè! Dopo due anni,

s'accapigliano ancor Galli e Britanni.

 

L'Europa vinta, attonita, sedotta

dalla grandezza del novello Marte,

segue con ansia i due titani in lotta:

Guglielmo Pitt e il primo Buonaparte.

Il nemico terrestre è ovunque in rotta,

ma gl'Inglesi sul mare hanno dell'arte

ed hanno, soprattutto, un ammiraglio:

Nelson. Sul mar, la Francia è allo sbaraglio.

 

Presso Boulogne ha già Napoleone

preparato un esercito da sbarco

per piombar sulla «perfida Albione »,

come freccia scagliatale da un arco;

ma un ostacolo, appunto, a lui s'oppone:

la flotta inglese che lo attende al varco.

L'imperator, mordendosi le mani,

sospira: «Se ci fosser gli aeroplani!... ».

 

XLI

IL BLOCCO CONTINENTALE TRAMONTO DI NAPOLEONE

 

Se a Trafalgar il sogno allettatore

d'un impero mondiale è deceduto,

dopo Austerlitz il grande imperatore

sul continente è l'arbitro assoluto:

in un giorno di gloria e di fulgore,

l'esercito austro-russo egli ha battuto;

l'Europa ha chiesto pace, e Pitt è morto

in preda alla stanchezza e allo sconforto.

 

Per Londra la partita è disperata

dinanzi alla compagine europea,

ora che, vinta e insieme affascinata,

la Russia al nuovo Cesare s'allea.

Ma l'Inghilterra è sempre più arrabbiata,

per cui Napoleone ora ha un'idea:

far sì che l'avversaria sia colpita

nei suoi commerci, ossia, nella sua vita.

 

E da Berlino, allor, decreta il blocco

continentale contro il Regno Unito.

Il commercio mondiale è senza sbocco,

e non soltanto Londra è a mal partito;

domina ovunque il contrabbando,un fiocco

di lana costa quanto già un vestito,

e lo stesso padrone dell'impero

deve servirsi del mercato nero.

 

Benché gl'Inglesi mangino a fatica,

non intendon piegarsi, è naturale:

finché la Russia, con cui Londra intrica,

rompe quel blocco inutile e fatale.

La Francia, dichiarandola nemica,

le muove guerra e l'aquila imperiale,

che mai rovesci e mai cadute seppe,

si perde fra le nevi delle steppe.

 

I Russi si ritirano con arte,

bruciando tutto inesorabilmente;

dopo, il nemico attaccan d'ogni parte

con scaramucce rapide e cruente.

Göbbels ancor non c'era, e il Buonaparte,

invece di «sganciarsi» astutamente,

batte, coi resti della Grande Armata,

in una disastrosa ritirata.

 

In fretta e furia, ritornato in Francia,

egli prepara nuovi contingenti,

mentre la Prussia contro lui si lancia

e l'Austria al vinto mostra i vecchi denti.

Ora è l'Europa che da lui si sgancia,

e i nuovi vincitori, intransigenti,

volendo eliminarlo ad ogni costo,

mandan nel1'Elba il Cesare deposto.

 

Ma quel ritiro al Corso non aggrada:

egli ritorna e riconquista il soglio;

poi, vinto a Waterloo, cede la spada

ai suoi nemici saturi d'orgoglio.

E Londra, adesso, per tenerlo a bada,

lo confina a Sant'Elena, uno scoglio

nudo e selvaggio, in mano a un mezzo boia,

a morire di crampi e, più, di noia.

 

E' stato deplorato molto spesso

il gesto ingeneroso dei Britanni;

ma, a ben pensarci, anch'io - ve lo confesso-

­avrei fatto così nei loro panni.

Eh, la prudenza, allora come adesso;

non è mai troppa! Centotrentott'anni

più tardi, un Buonaparte in do minore

si squaglierà dal Campo Imperatore.

 

XLII

IL SECOLO DICIANNOVESIMO

 

Un bel Congresso, che s'aduna a Vienna,

- s'intende, in nome del divin diritto ­

cancella con un sol tratto di penna

le conquiste del despota sconfitto.

Ma il mondo, dalle rive della Senna

partito verso un epico conflitto,

un ideale umano ha conquistato,

che non può cancellar nessun trattato.

 

Libertà! Libertà! Questa parola

è in tutti i cuori, palpita nell'aria,

vibra nel canto della carmagnola;

ma ovunque l' « idra rivoluzionaria»

è soffocata. L'Inghilterra sola,

fra una consorteria reazionaria,

raccoglie intorno a un trono liberale

un popolo che prospera e che sale.

 

Il popolo, che altrove è ancora un bue,

bestia dannata al giogo ed al macello,

lì trova usbergo nelle leggi sue,

contro la frusta e contro il manganello.

E già nell'ottocentotrendatue

ecco un «Premier », con tanto di cervello,

varare una riforma elettorale

che prelude al suffragio universale.

 

Dopo i due regni (è l'anno '37)

del quarto Giorgio e di Guglielmo quarto,

signori dalle idee piuttosto grette,

che dan molta importanza al loro sarto,

sale sul trono, e bene assai promette,

la donzella Vittoria, il più bel parto

dell'Ottocento, il simbolo più esatto

d'un popolo felice e soddisfatto.

 

Per sessantaquattr'anni, indisturbata,

celebra nobilmente l'epopea

della prosperità: signori, è nata

la grande industria, e la ricchezza crea.

Si vive bene, è un'epoca beata:

solo la breve guerra di Crimea,

contro la Russia, offusca lievemente

quell'atmosfera dolce e trasparente.

 

In quella guerra, il piccolo Piemonte,

che sa badare agli interessi suoi,

ottiene anch'esso di mandare al fronte

un minuscolo esercito d'eroi,

poiché un certo Cavour, dalle idee pronte,

senza sbracciarsi, senza urlare - A noi! -,

senza evocar Caligola e Tiberio,

vuol far l'Italia e la farà sul serio.

 

Intanto, sotto i più remoti cieli,

Londra si dà tranquilla alla rapina,

e Palmerston, Gladstone e Disraeli,

alternando la forza e la sterlina,

usando spesso i mezzi più crudeli,

ad una borghesissima regina,

che fa la calza e ai sudditi sorride,

dànno un impero quale mai si vide.

 

Ma, in un'ondata di romanticismo,

in quel frattempo, l'Inghilterra approva

e appoggia i sogni d'un nazionalismo

che si risveglia in un'Europa nuova.

Profittando, però, del pacifismo

di cui nel continente essa dà prova,

un altro impero intanto nasce e smania

per aver il primato: è la Germania.

 

XLIII

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

 

Londra, coi suoi dominii colossali

dal Nilo al Capo, dall'Irlanda al Gange,

adocchia due repubbliche rurali

sud-africane: Transvaal e Orange.

Dei coloni olandesi assai frugali,

che presto il mondo unanime compiange,

su quel suolo fecondo e benedetto

vivono in pace e senza alcun sospetto.

 

Ma si scoprono un giorno, in quella terra,

dei giacimenti d'oro e di diamanti:

immaginate un po' se l'Inghilterra

ci avrebbe ripensato a farsi avanti!

Senza nessun perché, porta la guerra

a quei tranquilli e indomiti abitanti,

che, solo armati di fucili e falci,

al potente aggressor dànno dei calci.

 

Il conflitto lunghissimo e cruento

copre Londra d'infamia e di ridicolo;

ed essa nel superbo isolamento

in cui si trova ormai, fiuta un pericolo:

assalita in Europa, in quel momento,

si sarebbe trovata in mezzo a un vicolo!

Bisognava trovar sul continente

un'alleanza solida e potente.

 

Era un periodo critico: in Germania

regnava incontrastato Guglielmone,

che Londra insospettì con quella smania

che aveva lui di farla da padrone,

e che sembrava in cerca di zizzania

per far precipitar la situazione

e per far dir: «Guardate il gran Guglielmo

come sta bene con la spada e l'elmo!».

 

Dinanzi alla compagine tedesca,

con quel campione in vena di prodigi

e di natura isterica e manesca,

s'accordaron fra lor Londra e Parigi,

e con cordialità cameratesca

appianaron gli atavici litigi.

Anche la Russia entrò nella partita:

si capì che la pace era finita.

 

Tanto tuonò che piovve. Il Novecento,

ch'era sembrato un secolo idilliaco,

pieno di civiltà, di sentimento,

uscì di senno. Un arciduca austriaco

è ucciso a Seraievo: ecco il momento

atteso da Guglielmo. Il gran maniaco

ritiene che sia giunta l'occasione

per papparsi l'Europa in un boccone.

 

L'Inghilterra mobilita l'impero;

la Francia trova i giorni suoi migliori;

scende in campo l'Italia (e, non par vero,

vince gli Austriaci, senza dittatori);

1'America, il Giappone, il mondo intero

si schiera in armi contro gli aggressori.

Ma il popolo di Russia furibondo,

contro lo Zar insorge: è il finimondo!

 

Lenin (chi dice: « è un'anima profetica »,

chi invece afferma : « è un pazzo»), uomo d'azione,

proclama la repubblica sovietica .

e domanda la pace a Guglielmone;

ma questi, infine, dopo una frenetica

lotta che a nulla val, l'armi depone:

perde la guerra sì, ma son dolori

per i neutrali, i vinti e i vincitori.

 

XLIV

LA REAZIONE FASCISTA

 

Al solito, la pace di Versaglia

scontenta tutti: la Germania cede,

ma aspetta e spera; intorno è un'accozzaglia

di stati d'ogni lingua e d'ogni fede,

che un malessere organico travaglia,

mentre, nel digerir le nuove prede,

Londra e Parigi, vinta la quaterna,

sono sicure della pacchia eterna.

 

Wilson, il nuovo apostolo, mostrando

in un sorriso i suoi dorati denti,

dice: « Alle guerre, ormai, sia dato il bando:

regni la pace fra le umane genti! ».

E, certo in buona fede, escogitando

il più infelice degli esperimenti,

a Ginevra fondò, fra canti e suoni,

l'allegra Società delle N azioni.

 

Talun, rimasto con asciutta bocca,

volea del mondo riveder le carte;

altri gridava: «Il mondo non si tocca:

Dio me l'ha dato e più non lo si sparte».

E soggiungeva: «Questa è la mia rocca,

e buco ogni fellon da parte a parte,

se solo ardisca di turbarmi il chilo,

ch'è così dolce in questo ameno asilo!».

 

D'esser rimasti quasi a mani vuote

si lamentavan pure gli Italiani:

un antico plebeo gonfia le gote,

promette lor le glorie dei Romani,

il plauso dei fanatici riscuote,

rispolverando detti dannunziani,

e lancia una crociata antisovietica,

che la tremante borghesia solletica.

 

Sale al potere, in un'Italia muta,

impugnando dei Cesari la spada;

in Hitler minaccioso, indi, saluta

un alleato e, per tenere a bada

gli stati democratici, egli aiuta

il nazismo tedesco a farsi strada

(un nazismo spietato e trucibondo

che sogna la rivincita sul mondo).

 

E in un'Europa pavida, c'ha orrore

di un'altra guerra, giocherà d'azzardo:

conquisterà l'Etiopia (e con stupore

l'Italia esclamerà: «Com'è gagliardo!»),

mentre in Germania il nuovo dittatore,

l'ardito Adolfo, innalza il suo stendardo,

uno stendardo d'odio e di conquista,

sacro alla nuova tirannia razzista.

 

Come soleva far dopo ogni guerra,

dando una mano all'avversario vinto,

così di nuovo ha fatto l'Inghilterra

con la Germania; e questa, a pié sospinto,

non fa che armarsi ancor (mentr'era a terra)

e in sé ritrova il bellicoso istinto,

minacciando cornate a più non posso,

come fa il toro innanzi a un drappo rosso.

 

Dà carri armati al popolo digiuno,

che sdegna il burro e accetta il pane nero;

s'annette con la forza, ad uno ad uno,

i territori che perdè l'impero;

s'accorda poi con l'italo tribuno,

che ormai gli fa da semplice scudiero,

e, come un folle, grida a squarciagola:

«A chi la terra?». «Alla Germania sola! ».

 

XLV

EDOARDO VII E LA SIMPSON

 

Però, la storia, qui, ci dà il pretesto

di narrare una favola d'amore,

sia pur spiegando come Giorgio sesto

fu d'Edoardo ottavo il successore,

d'un Edoardo che abdicò ben presto,

per aver dato il suo ribelle cuore

ad una seducente americana,

divorziata due volte e alquanto anziana.

 

Era triste la reggia: in certe sale,

che non s'aprivan più, regnava il vuoto,

per un'usanza costituzionale

che risaliva a un secolo remoto;

sui vecchi corridoi, lugubre e uguale

pesava un senso di mistero immoto,

ed un'aria di muffa e di vecchiume

ch'escludeva di luce ogni barlume.

 

Dalle ingiallite stoffe istoriate,

la notte, con le braccia penzoloni

uscivano regine infarinate

e s'affacciavan timide ai balconi,

o passeggiavan lungo le vetrate,

in compagnia di paggi e di buffoni,

ed evocavan pallide leggende

e di morte e d'amor strane vicende.

 

Tutto era lento, misurato, tardo,

in quella fastosissima dimora,

ma gli orologi no: giunto in ritardo

all'Assemblea dei Pari, un re d'allora

(del settecento: un Giorgio o un Edoardo)

li aveva messi innanzi di mezz'ora,

per evitar che quella brava gente

aspettasse il sovrano inutilmente.

 

Così da duecent'anni eran rimasti...

E tutto era immutabile. Severi,

curvi, vagavan pei saloni vasti,

immersi in malinconici pensieri,

nettandosi con garbo i denti guasti,

annosi ciambellani e consiglieri,

con le parrucche e gli abiti leggiadri

usati ancora dagli antichi padri.

 

Ma entrò un giovane principe,

una volta, e quella reggia, sotto le sue mani,

si rinnovò: fuggiron, con l'accolta

di quei fantasmi polverosi e vani,

sicché la reggia ne restò sconyolta,

annosi consiglieri e ciambellani.

Qualche conservator, mesto e compunto,

vide l'impero, ormai, bello e defunto.

 

Furono spalancati i chiusi vetri,

e i vecchi servitori, mogi mogi,

videro a un tratto dileguar gli spetri,

scacciar dall'etichetta usi barbogi,

entrar la luce nei saloni tetri,

aggiustar le lancette agli orologi,

sparir dei quadri, sacri alla memoria

della ridente e placida Vittoria.

 

Ma un giorno il biondo principe scomparve,

perché s'innamorò d'una borghese

e più bello del trono Amor gli parve.

E per la reggia, in capo a qualche mese,

tornarono a girar le antiche larve,

sui vechi muri il buio ridiscese,

di nuovo dalle stoffe istoriate

usciron le regine infarinate ...

 

XLVI

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

 

Londra cercava d'evitar la guerra:

il mite Chamberlain in aeroplano

due volte si partì dall'Inghilterra

con l'ombrellone e con il cuore in mano;

fece del tutto per salvar la terra,

placando il fiero tèutone, ma invano;

non gli giovò né il cuore né l'ombrello:

il tèutone rapace aprì macello.

 

Occupata già l'Austria ed i Sudeti

e la Boemia ancor, faccia di cuoio,

per strangolar l'Europa ed i Soviéti

già pronto avendo il «canapo scorsoio »,

su Danzica girò gli occhi irrequieti,

senza pensar che in fondo al Corridoio

(l'ultima zona - disse - reclamata)

c'è il caso di trovar la ... ritirata.

 

Chiede la guerra, ormai non c'è più scampo:

non è un più un uomo, è un demone furente.

E dà principio a quella guerra-lampo

che durerà sei anni esattamente,

durante cui nequizie d'ogni stampo

deturperanno il vecchio continente,

con i saccheggi, i forni crematorii,

deportazioni in massa ad accessorii.

 

Lo scellerato ha in pugno la vittoria,

riduce mezza Europa ad uno straccio.

A quella sanguinosa orgia di gloria,

Benito Mussolini: «Ed io, che faccio?»

si chiede fieramente e, dalla Storia

preso alla gola, alfin tenta il colpaccio;

rompe ogni indugio ed entra anch'egli in lizza,

mentre la Francia rantola e agonizza.

 

Ma Londra è lungi dall'alzar le braccia,

invan terrorizzata dagli «Stuka ».

Winston Churchill la guida: è una pellaccia,

che ,di primo ministro ha la feluca.

Non ci son bombe, ohibò, non c'è minaccia,

non c'è consiglio che a piegar lo induca.

E Hitler, dalla grinta ognor più fosca,

si volge ad est e punta verso Mosca.

 

Scende in campo l'America, attaccata

a tradimento dall'incauto Tenno,

la favolosa America, guidata

da un uomo che ha del fegato e del senno.

Per quanto ancor del tutto impreparata,

essa balza di scatto ad un suo cenno:

alla potenza umana ed economica

ben presto aggiungerà la bomba atomica ...

 

Il resto è noto: il «führer» si suicida,

il giallo imperator si sente male,

il «duce» è ucciso e appeso, fra le grida

del popolo in rivolta, in un piazzale.

Ma, quel ch'è peggio, l'insensata sfida

pagò purtroppo il povero Stivale,

da una furia crudele e mentecatta

ridotto quasi a un'umile ciabatta.

 

E Churchill? Dittatore incontrastato

durante i foschi e leggendari eventi,

se ne va via da semplice privato,

dopo la guerra, senza monumenti.

Perché gli Inglesi in questo han dimostrato

d'essere sempre savi e intransigenti:

un idolo per essi è fra i più cari:

la libertà, signori. E il mondo impari!

 

FINE


la copertina del libro
Un ringraziamento di cuore al Signor Giuseppe Amoruso, residente in Cirò Marina. Grazie alla sua "testardaggine" ed al suo certosino lavoro, di ricerca e digitalizzazione, è stato possibile divulgare questa opera ormai introvabile.