![]() |
Da allora i buoi e ogni animale hanno diritto d'ingresso fino ai piedi dell'altare, dove si prostrano sui ginocchi davanti. Il luogo del santuario è una specie di isola formata da due fiumi nelle gole dell'Aspromonte, lo chiudono cime di mille e millecinquecento metri, e la vetta di quasi duemila del Monte Alto; denso di boschi, pieno di laghetti, roccioso e verde di felci e di ginestre. Crescono vicini il castagno e il pino, il nocchio e il pioppo, il frassino e l'abete, mescolanza di piante alpestri e mediterranee dei nostri luoghi, più chiare quelle estive, scure quelle invernali, e come ammantate, che nei nostri climi a vederle si pensa al cattivo tempo. |
D'inverno la contrada è chiusa dalle nevi, vi si accostano soltanto i pastori cacciati dai lupi e dalle tempeste dalle loro capanne di paglia e di terra. L'estate comincia il pellegrinaggio, dopo la mietitura e la vendemmia che da noi si fanno presto. Numeroso è poi il pellegrinaggio nei primi giorni di settembre.
Allora ci si accorge che la montagna fa tutto un anfiteatro intorno a quel luogo, i viottoli si disegnano chiari fra i boschi e i poggi nudi, gente in fila, per uno, come un rosario, arriva da ogni parte; e da tutte le parti ugualmente, come da terrazze, valicata la catena dell’Aspromonte, si scopre in fondo alla valle il convento, il campanile col suo cappello a cono, come se stesse in guardia. Questa apparizione improvvisa strappa gridi di gioia; da tutte le parti acclamano a quella vista, si agitano berretti, si scaricano i fucili, le rivoltelle, i tromboni, le scopette, al grido di "Viva la Madonna della Montagna!". Il Calabrese, anche quando parte per l’America, anche se va soldato, si porta il suo pane e il suo companatico; li porta nella manica della giacchetta che si mette a tracolla, e lega la manica in fondo come un sacchetto. Per lui non esistono ancora le osterie e gli alberghi. La sua diffidenza è antichissima. A questa festa che dura tre giorni, il Calabrese non è solo come in tutte le sue peregrinazioni, ma porta la donna e i figli; la donna con una cesta ben equilibrata sul capo, dentro la roba, e sopra alla roba magari il piccino che non sa ancòra camminare. I ragazzi pensano sempre a questa festa, le ragazze l’aspettano cantando canzoni apposite; in questa festa si incontra gran gente, e si balla, dirò come. Gente arriva da tutti i versanti, fin da Messina, da Reggio, dalla Piana, dalla Pietra di Febo, da Caulonia, da Bagnara, da Gerace; i paesi lungo il percorso si spopolano, e vi rimangono soltanto i vecchi; le piazze dei paesi di passaggio vedono i cortei che vanno in su, gente d’ogni condizione tutta insieme, con quello che accompagna il Calabrese, l’asino, il mulo, la zampogna, l’organetto, il piffero, che fanno tutti insieme una musica che pare un rovello. Su questa ballano uomini e donne. Dico che alcuni, specie le ragazze, fanno voto di ballare per tutta la strada. Questo bisogna lasciarlo fare alle donne del villaggio di Cardeto, dove menano le gambe fin da piccole e non si stancano mai. Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della festa; la gente ricca può portare, essendo scampata da un male, un cero grande quanto la persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o pecore, o un carico di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti modi per disobbligarsi con la Vergine delicata, come la chiamano le donne. Uno, denudato il petto e le gambe, si porta addosso una campana di spine che lo copre dalla testa ai piedi, spine lunghe e dure come crescono nel nostro spinoso paese, e che ad ogni passo pungono chi ci sta in mezzo. Una femminella fa un tratto di strada sulle ginocchia; e così le ragazze fanno la strada ballando, e balleranno giorno e notte per le ore che hanno fatto il voto, fino a che si ritrovano buttate in terra o appoggiate al muro, che muovono ancora i piedi. E i cacciatori, poi, che fanno voto di sparare alcuni chili di polvere; in quei giorni non si parla di porto d’armi, e i carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi intorno al santuario e sparano notte e giorno. Nella piazza ballano, suonano, cantano notte e giorno, notte e giorno tuonano i boschi, alla fine sono diecimila, quindicimila persone che non fanno altro in quella valle stretta; l’eco ha un gran daffare a ripetere tutto quello strepito inestricabile, e fa un lungo fragore confuso. I sopraggiunti vedono e sentono la festa dalle terrazze sui monti, la valle che brucia come un vulcano e vi si buttano dentro col loro rumore. Hanno fatto strade lunghe e difficili, di sei o sette ore. Pare che il Governo aprirà una strada strategica da un versante all’altro, per tutto l’Aspromonte, dove era già una strada militare romana; ma intanto si va per il sentiero a mezza costa, spesso non più largo di due palmi, su burroni profondi dove le acque strillano da stordire. Per la strada, chi non è intento ad altro prende un sasso e lo porta fino alla croce dell’altura in vista dei santuario, qui lo butta in una mora di altri sassi, e in due giorni si fa un cumulo di materiale buono per la fabbrica del convento e degli ospizi dei pellegrini. Io mi ricordo che portavo un sasso piccolino quand’ero piccolo. Ci sono le fresche fonti della montagna, desiderio del Calabrese che ha paesi poveri d’acqua. La notte, per illuminare la strada, si dà fuoco agli alberi secchi colpiti dalla vecchiaia e dal fulmine, e fanno da torce pel sentiero difficile. Io ci andai per la prima volta a nove anni. Mi ricordo che bruciava una vecchia quercia gialla. Per quella turba magna, non basta nè il convento nè le case della comunità, nè le capanne, e si sceglie ognuno il suo posto sotto i boschi. Tien bottega ognuno all’aperto, le bestie macellate sono appese agli alberi. Ci vengono i dolcieri della Sicilia, coi loro torroni dai colori sgargianti sui tavoli coperti di lino bianco, e i più famosi mendicanti. Questo il Calabrese vuol vedere, coi suo gusto pel Presepe. C’è quello che spiega, su un cartello dipinto a quadri successivi, le gesta dei Paladini; c’è la frotta degli zingari, la sonnambula, i carabinieri che fanno paura ai vendicatori e agli innamorati respinti. E si vedono le mille facce delle Calabrie. La chiesa è spalancata, la gente vi si pigia a poco per volta; presso l’altare i muti vogliono parlare, i ciechi vedere, gl’infermi guarire. Le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna, perché si commuova. Arrivano gli animali infiocchettati che si donano per voto, e cadono sulle ginocchia perchè sembra che capiscano anche loro. Viene il mulo carico di grano e di vino, le caprette coi loro campani, che suonano. Sul banco coperto di un lino, le donne buttano gli orecchini e i braccialetti; gli uomini tornati da una fortunata migrazione le carte da cento e da più: è una montagna d’oro e di denaro che per la prima volta nessuno guarda con occhi cupidi. La Vergine guarda sopra tutti, e i gioielli degli anni passati la coprono come un fulgido ricamo. Si sta là dentro come in una conchiglia piena del rombo della folla come d’un mare; la terra pestata dai balli che si intrecciano in ogni angolo di strada, su tutta la piazza, sotto una porta, sotto un albero, fa un rumore come se vi si gramolasse tutto il lino della terra, si macinasse tutto il grano. Nuove turbe arrivano d’ora in ora, sparando e gridando, in quella terra promessa. Al terzo giorno di settembre si fa la processione e si tira fuori il simulacro portabile. Hanno il privilegio di portatori gli uomini di Bagnara, gente di mare, audaci e ricchi migratori, pèscatori accaniti di pescespada e di tonni. Sono loro i più abili a far correre, come se volasse, l’immagine della Madonna sul suo pesante piedistallo, mentre le buttano intorno grano, confetti, fiori; non si sente altro, tra lo sparo dei fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità viva tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti a un’armonia più alta della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si stracciano il viso e non riescono neppure a piangere. | |
Corrado Alvaro
|