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Il Santuario - Foto by Franco Politi
IL SANTUARIO DI POLSI

Dirò d'una festa che è forse la più animata delle Calabrie. Le feste fanno conoscere la natura degli uomini.
Nell'Aspromonte abbiamo un santuario che si chiama di Polsi, ma comunemente della Madonna della Montagna.
È un convento basiliano del millecento, uno dei pochi che rimangono in piedi nelle Calabrie. La Madonna è opera siciliana del secolo XVI, scolpita nel tufo e colorata, con due occhi bianchi e neri, fissi, che guardano da tutte le parti.
Intorno alla chiesa c'è il convento, con pochi frati cercatori che vanno per le aie, le vendemmie, i trappeti, a fare la questua pel convento che è solo in montagna e vive della carità di tutti.
Questi frati portano sul petto l'immagine della Madonna in una grande lastra di rame, consunta dai baci. Poi al tempo suo, ricambiano i donatori con le noci e le castagne del convento che ha per vecchio privilegio boschi di questi alberi.
Intorno al Santuario, da secoli, comunità siciliane e calabresi si sono costruite case per ricoverare i loro cittadini nei giorni della festa che cade fra il 1 ed il 3 settembre. C'è una Domus Siculorum, come c'è una Domus Locrensium, e ne portano l'iscrizione.
Questa nostra Madonna che non ha nulla di dolce, bensì d'imperioso, nessuno può muoverla dalla sua nicchia senza che avvenga il terremoto, e per poterla portare in processione, poichè non c'è festa senza processione, se n'è fatta una copia ma più leggiera e non così bella.
Questo culto nacque in modo del tutto favoloso. C'è di mezzo un re, il Conte Ruggiero, una caccia con levrieri, un miracolo. Andando il Conte Ruggiero sull'Aspromonte a caccia, sentì i suoi levrieri gridare lontano. Accorse trovò un bue che inginocchiato frugava col muso la terra. Fu rinvenuta in quel luogo una croce greca, nacque così il culto della Madre di Dio.
Croce antica in legno del Convento - Foto Franco Politi.
Da allora i buoi e ogni animale hanno diritto d'ingresso fino ai piedi dell'altare, dove si prostrano sui ginocchi davanti. Il luogo del santuario è una specie di isola formata da due fiumi nelle gole dell'Aspromonte, lo chiudono cime di mille e millecinquecento metri, e la vetta di quasi duemila del Monte Alto; denso di boschi, pieno di laghetti, roccioso e verde di felci e di ginestre. Crescono vicini il castagno e il pino, il nocchio e il pioppo, il frassino e l'abete, mescolanza di piante alpestri e mediterranee dei nostri luoghi, più chiare quelle estive, scure quelle invernali, e come ammantate, che nei nostri climi a vederle si pensa al cattivo tempo.
D'inverno la contrada è chiusa dalle nevi, vi si accostano soltanto i pastori cacciati dai lupi e dalle tempeste dalle loro capanne di paglia e di terra. L'estate comincia il pellegrinaggio, dopo la mietitura e la vendemmia che da noi si fanno presto. Numeroso è poi il pellegrinaggio nei primi giorni di settembre.
Allora ci si accorge che la montagna fa tutto un anfiteatro intorno a quel luogo, i viottoli si disegnano chiari fra i boschi e i poggi nudi, gente in fila, per uno, come un rosario, arriva da ogni parte; e da tutte le parti ugualmente, come da terrazze, valicata la catena dell’Aspromonte, si scopre in fondo alla valle il convento, il campanile col suo cappello a cono, come se stesse in guardia. Questa apparizione improvvisa strappa gridi di gioia; da tutte le parti acclamano a quella vista, si agitano berretti, si scaricano i fucili, le rivoltelle, i tromboni, le scopette, al grido di "Viva la Madonna della Montagna!".
Il Calabrese, anche quando parte per l’America, anche se va soldato, si porta il suo pane e il suo companatico; li porta nella manica della giacchetta che si mette a tracolla, e lega la manica in fondo come un sacchetto. Per lui non esistono ancora le osterie e gli alberghi. La sua diffidenza è antichissima. A questa festa che dura tre giorni, il Calabrese non è solo come in tutte le sue peregrinazioni, ma porta la donna e i figli; la donna con una cesta ben equilibrata sul capo, dentro la roba, e sopra alla roba magari il piccino che non sa ancòra camminare. I ragazzi pensano sempre a questa festa, le ragazze l’aspettano cantando canzoni apposite; in questa festa si incontra gran gente, e si balla, dirò come. Gente arriva da tutti i versanti, fin da Messina, da Reggio, dalla Piana, dalla Pietra di Febo, da Caulonia, da Bagnara, da Gerace; i paesi lungo il percorso si spopolano, e vi rimangono soltanto i vecchi; le piazze dei paesi di passaggio vedono i cortei che vanno in su, gente d’ogni condizione tutta insieme, con quello che accompagna il Calabrese, l’asino, il mulo, la zampogna, l’organetto, il piffero, che fanno tutti insieme una musica che pare un rovello. Su questa ballano uomini e donne. Dico che alcuni, specie le ragazze, fanno voto di ballare per tutta la strada. Questo bisogna lasciarlo fare alle donne del villaggio di Cardeto, dove menano le gambe fin da piccole e non si stancano mai.
Statua della Madonna - Foto by Franco Politi Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della festa; la gente ricca può portare, essendo scampata da un male, un cero grande quanto la persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o pecore, o un carico di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti modi per disobbligarsi con la Vergine delicata, come la chiamano le donne. Uno, denudato il petto e le gambe, si porta addosso una campana di spine che lo copre dalla testa ai piedi, spine lunghe e dure come crescono nel nostro spinoso paese, e che ad ogni passo pungono chi ci sta in mezzo. Una femminella fa un tratto di strada sulle ginocchia; e così le ragazze fanno la strada ballando, e balleranno giorno e notte per le ore che hanno fatto il voto, fino a che si ritrovano buttate in terra o appoggiate al muro, che muovono ancora i piedi. E i cacciatori, poi, che fanno voto di sparare alcuni chili di polvere; in quei giorni non si parla di porto d’armi, e i carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi intorno al santuario e sparano notte e giorno. Nella piazza ballano, suonano, cantano notte e giorno, notte e giorno tuonano i boschi, alla fine sono diecimila, quindicimila persone che non fanno altro in quella valle stretta; l’eco ha un gran daffare a ripetere tutto quello strepito inestricabile, e fa un lungo fragore confuso. I sopraggiunti vedono e sentono la festa dalle terrazze sui monti, la valle che brucia come un vulcano e vi si buttano dentro col loro rumore. Hanno fatto strade lunghe e difficili, di sei o sette ore. Pare che il Governo aprirà una strada strategica da un versante all’altro, per tutto l’Aspromonte, dove era già una strada militare romana; ma intanto si va per il sentiero a mezza costa, spesso non più largo di due palmi, su burroni profondi dove le acque strillano da stordire.
Per la strada, chi non è intento ad altro prende un sasso e lo porta fino alla croce dell’altura in vista dei santuario, qui lo butta in una mora di altri sassi, e in due giorni si fa un cumulo di materiale buono per la fabbrica del convento e degli ospizi dei pellegrini. Io mi ricordo che portavo un sasso piccolino quand’ero piccolo. Ci sono le fresche fonti della montagna, desiderio del Calabrese che ha paesi poveri d’acqua. La notte, per illuminare la strada, si dà fuoco agli alberi secchi colpiti dalla vecchiaia e dal fulmine, e fanno da torce pel sentiero difficile. Io ci andai per la prima volta a nove anni. Mi ricordo che bruciava una vecchia quercia gialla.
Polsi: scannatoio - Foto by Franco Politi Per quella turba magna, non basta nè il convento nè le case della comunità, nè le capanne, e si sceglie ognuno il suo posto sotto i boschi.
Tien bottega ognuno all’aperto, le bestie macellate sono appese agli alberi. Ci vengono i dolcieri della Sicilia, coi loro torroni dai colori sgargianti sui tavoli coperti di lino bianco, e i più famosi mendicanti. Questo il Calabrese vuol vedere, coi suo gusto pel Presepe. C’è quello che spiega, su un cartello dipinto a quadri successivi, le gesta dei Paladini; c’è la frotta degli zingari, la sonnambula, i carabinieri che fanno paura ai vendicatori e agli innamorati respinti. E si vedono le mille facce delle Calabrie. La chiesa è spalancata, la gente vi si pigia a poco per volta; presso l’altare i muti vogliono parlare, i ciechi vedere, gl’infermi guarire. Le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna, perché si commuova. Arrivano gli animali infiocchettati che si donano per voto, e cadono sulle ginocchia perchè sembra che capiscano anche loro. Viene il mulo carico di grano e di vino, le caprette coi loro campani, che suonano. Sul banco coperto di un lino, le donne buttano gli orecchini e i braccialetti; gli uomini tornati da una fortunata migrazione le carte da cento e da più: è una montagna d’oro e di denaro che per la prima volta nessuno guarda con occhi cupidi. La Vergine guarda sopra tutti, e i gioielli degli anni passati la coprono come un fulgido ricamo.
Santuario di Polsi - Foto by Franco Politi Si sta là dentro come in una conchiglia piena del rombo della folla come d’un mare; la terra pestata dai balli che si intrecciano in ogni angolo di strada, su tutta la piazza, sotto una porta, sotto un albero, fa un rumore come se vi si gramolasse tutto il lino della terra, si macinasse tutto il grano. Nuove turbe arrivano d’ora in ora, sparando e gridando, in quella terra promessa.
Al terzo giorno di settembre si fa la processione e si tira fuori il simulacro portabile. Hanno il privilegio di portatori gli uomini di Bagnara, gente di mare, audaci e ricchi migratori, pèscatori accaniti di pescespada e di tonni. Sono loro i più abili a far correre, come se volasse, l’immagine della Madonna sul suo pesante piedistallo, mentre le buttano intorno grano, confetti, fiori; non si sente altro, tra lo sparo dei fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità viva tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti a un’armonia più alta della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si stracciano il viso e non riescono neppure a piangere.
Corrado Alvaro
Corrado Alvaro nasce il 15 aprile 1895 a San Luca (Reggio Calabria), un piccolo paese sul versante jonico dell'Aspromonte, primogenito dei sei figli di Antonio e di Antonia Giampaolo.
Il padre, maestro elementare, è fondatore di una scuola serale per contadini e pastori analfabeti; la madre proviene da una famiglia di piccoli proprietari. A San Luca trascorre un'infanzia felice, fortemente influenzato dal padre, che gli dà la prima istruzione e facendogli conoscere profondamente la natura, gli uomini e la tradizione della sua terra.
Terminate le scuole elementari, è mandato a proseguire gli studi nel prestigioso collegio di Mondragone, a Frascati, una scuola d'élite gestita dai Gesuiti.
Studia e comincia a scrivere poesie e racconti. Dopo i primi cinque anni di ginnasio, viene espulso dal collegio, perché sorpreso a leggere testi considerati proibiti. Costretto a cambiare istituto, é mandato nel collegio di Amelia, in provincia di Perugia,dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio.
Durante gli studi superiori si dedica con grande passione alla letteratura, approfondendo soprattutto le opere degli scrittori allora più noti e ammirati: Carducci , Pascoli e D'Annunzio e compone lui stesso molti racconti e poesie. Nel 1914 pubblica le sue prime poesie su "Il nuovo birichino calabrese", e alcune traduzioni da Tagore nella "Rivista d'oggi".
Partecipa a manifestazioni interventiste, in seguito alle quali è arrestato per alcune ore e organizza un numero unico contro la polizia: "Bum!" Nel gennaio del 1915 èè chiamato alle armi. E' assegnato a Firenze, a un reggimento di Fanteria e segue il corso allievi ufficiali nell'Accademia militare di Modena, uscendone con il grado di sottotenente. Durante l'estate manda alcune poesie alla "Riviera Ligure". All'inizio di settembre si trova in zona di guerra. A novembre è in prima linea, viene ferito alle braccia (il destro non guarirà mai del tutto) sul Monte Sei Busi, nella zona di San Michele del Carso E sarà anche decorato con la medaglia d'argento. E' costretto ad una lunga degenza presso l'ospedale militare di Ferrara prima e poi di Firenze. Passa al servizio sedentario presso Chieti; nel settembre del1916 è a Roma.
Verso la fine dell'anno comincia a collaborare al "Resto del Carlino", pubblicandovi i primi racconti.
Si trasferisce a Bologna quando ne diventa redattore. Escono intanto a Roma le "Poesie Grigioverdi". L'8 aprile 1918 sposa la bolognese Laura Babini, conosciuta durante la guerra, allora impiegata come ragioniera, più tardi traduttrce dall'inglese. Un anno e mezzo dopo il matrimonio si trasferisce a Milano, con la famiglia (nel frattempo gli è nato il figlio Massimo): è assunto al "Corriere della Sera".
A partire dal '21 soggiorna per qualche tempo a Parigi, dove conosce alcuni italiani. Scopre Proust, di cui traduce qualche pagina, e scrive il suo primo romanzo: "L'uomo nel labirinto".Pubblica anche un'antologia di novelle russe. Nell'estate del '22 è chiamato come redattore al "Mondo", di Giovanni Amendola. Nell'inverno '23 / '24 comincia a frequentare casa Pirandello.
Dopo il delitto Matteotti è tra i cinquanta firmatari dell'Unione nazionale delle forze democratiche guidata da Amendola.
A partire dall'estate del '24, sulla rivista umoristica "Il becco giallo", che non risparmia critiche al regime, tiene con lo pseudonimo V.E. Leno la rubrica "Sfottò". Da marzo a dicembre del '25 è anche critico teatrale del "Risorgimento" di Roma, poi soppresso.Dal marzo del '26 comincia a collaborare, all'inizio senza firmare, a "La Stampa", introdottovi da Pancrazi.
Su "La Stampa" del 14 gennaio 1927 pubblica le pagine iniziali di "Gente in Aspromonte".
Riviste francesi e tedesche ospitano suoi scritti. E' oggetto di attacchi da parte dei giornalisti fascisti, ma declina l'invito fattogli da amici francesi ad andare a Parigi. Alla fine del '28 parte per Berlino e segue attentamente la vita culturale tedesca.
Rientrato definitivamente a Roma continua a collaborare con "la Stampa" e pubblica, approfondendo i suoi originali temi letterari, le raccolte di racconti "Gente in Aspromonte", "La signora dell'isola" e il romanzo "Vent'anni", che gli valgono poi il premio letterario "La Stampa" di 50.000 lire. Nel 1933 riunisce in "Itinerario italiano" suoi scritti ed elzeviri su città e paesaggi d'Italia.
A partire dal '35 trascorre lunghi periodi a Santa Liberata (Grosseto).
Fino alla caduta del fascismo, Alvaro si mantiene comunque lontano dagli ambienti del potere e riesce a continuare con una relativa tranquillità la sua opera narrativa e saggistica. Scrive anche una commedia,"Caffè dei naviganti", rappresentata a Roma nel '39. E' chiamato inoltre a collaborare al "Popolo di Roma", pur non essendo iscritto al Partito fascista.
Nel gennaio del '41 torna per l'ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Tornerà invece più volte a Caraffa del Bianco (Reggio Calabria) a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. dal 25 luglio all'8 settembre '43 assume la direzione del "Popolo di Roma". Con l'occupazione tedesca della città, colpito da mandato di cattura, si rifugia a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorgi, e vive dando lezioni di inglese.
L' amico, che ne ha favorito la fuga, mantiene i contatti tra lui e la moglie, rimasta a Roma. Nel giugno del '44 ritorna a Roma. Viene a sapere che il figlio è stato fatto prigioniero in Jugoslavia e che, in seguito si è unito ai partigiani nei dintorni di Bologna.
Nel '46 esce "L'età breve", primo romanzo del ciclo "Memorie del mondo sommerso".
Vive e lavora tra Roma, nell'appartamento di Piazza di Spagna, con terrazzo sulla scalinata di Trinità dei Monti, e a Vallerano, in provincia di Viterbo, ai piedi dei Monti Cimini, dove ha una grande casa in casa in mezzo alla campagna. Nel '54 deve sottoporsi a un intervento chirurgico per un tumore addominale, inizialmente creduto benigno. Riprende a lavorare con lena. Aggravatasi la malattia, che colpisce ora i polmoni, muore a Roma nella sua abitazione il mattino dell'11 giugno 1956, lasciando alcuni romanzi incompiuti e vari altri inediti. La cerimonia funebre, nella chiesa romana di Santa Maria delle Fratte, è officiata dal fratello don Massimo.
Rispettando le sue ultime volontà, è sepolto nel cimitero di Vallerano, in una modesta tomba di peperino.

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