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PREFAZIONE 
Alberto Cavaliere aveva un altro dono raro, oltre 
la favolosa facilità di rime: riusciva a camminare con i 
tempi, a essere dentro le cose e le idee nuove, anche se 
continuaua a farne la satira: oppure proprio per questo. 
 Con le sue battute, con i suoi sarcasmi, continuava a 
seguire la vita: era un uomo attualissimo, anche se per 
civetteria si atteggiava a personaggio demodé. Eterna 
mente curioso del mondo, anche se lo guardava con sor 
ridente scetticismo: l'antico, solare scetticismo greco, 
mediterraneo, che si portava nel sangue per la sua ori 
gine calabra; e che lo guidava d'istinto a discernere tut 
to ciò che era falso, vacuo, per condannarlo nel modo 
che la sua natura suggeriva. 
 Era una sorta di sereno pessimismo, il suo, che somi 
gliava molto a una forma di ottimismo, di ingenuità, 
anche se appariva tanto pungente, perché continuava a 
prendere in giro, a demitizzare, come si dice oggi, ciò 
che si vedeva intorno. Aveva un tono svagato, di poeta 
in esilio sulla crosta terrestre, eppure sarebbe stato im 
possibile per lui cadere nel gioco delle illusioni: quelle 
che nascono dalle nostalgie del passato, e quelle che 
hanno radici nelle ambizioni del presente. Non aveva 
dunque gli astì, i rancori che a volte si rivelano nei vec 
chi attaccati all'età perduta. In fondo in fondo, conti-
nuava a pungere, a mettere in ridicolo perché sperava 
sempre che dietro i trucchi, la cartapesta, le bugie, le 
infinite miserie umane, restasse qualcosa di limpido e 
felice.  
 Così si spiega perché Cavaliere, che non perdonava a 
nessuno, sia stato incapace di far male a chicchessia. 
La sua satira, che sembrava sempre occasionale, andava 
in realtà oltre le persone e i momenti. E questo volume 
si propone di sottolineare proprio gli aspetti della sua 
opera più vicini all'uomo, alla vita quotidiana, al costu 
me: spiccioli, in apparenza, ma - se ci si pensa - i più 
penetranti. Non è Alberto Cavaliere politico e storico 
(sempre a modo suo, in rima), nè quello che rese di 
vertente a generazioni di italiani la chimica in versi; ma 
quello più attento al corso degli eventi, nel riflesso della 
cronaca, delle mode, degli atteggiamenti, anche se poi 
le novità si rivelavano regolarmente, e non per sua colpa, 
inconsistenti ripetizioni di antiche follie e di antichi 
errori. 
 Il titolo del volume, felicissimo titolo a mio avviso: 
« E vennero i beat », è significativo; indica chiaramente 
questa direzione. Cavaliere, che da ogni fatterello traeva 
spunto (anche quando andò alla Camera, deputato, in 
vece di litigare componeva versi che prendevano in giro 
tutti, eppure avevano la virtù di placare, non di esaspe 
rare le contese), quel Cavaliere lo ritroviamo qui a rac 
contare in versi - per esempio - che gli piace si l'idea di 
istituire una giornata della bontà verso gli animali; ma 
quando si farà una giornata della bontà verso gli uomi 
ni? Oppure è la storia, che spiritosamente diventa favo 
la nelle rime, del ladro che ruba un pollo e prende 
un mese di carcere; torna libero, ruba un altro pollo, 
e di mesi ne prende sei; dopo di che «avrà detto 
perciò con voce amare - la vita si fa sempre un po' 
più cara ». 
 C'è un itinerario nel volume: dai personaggi storici a 
quelli moderni, dallo snob al beat: al quale Cavaliere 
si rivolge indulgente (salvo la faccenda dei capelloni che 
proprio non riesce a mandar giù), e dice che in fondo 
ci starebbe anche lui contro le ipocrisie, le ingiustizie, 
se non avesse già il dubbio che tutta questa rivoluzione 
sia prossima a finire « nel museo - delle curiosità con 
temporanee ». C'è anche, in questo volume, una poesia 
giocosa scritta da Cavaliere sulla notizia che a New York, 
il primo dell'anno, su 296 morti 280 erano stati vittime 
di incidenti stradali; e dice a un certo punto della gente 
che tornava a casa « per dormirvi tranquilla una gior 
nata - e che finiva sotto quattro ruote - poiché del clack 
son non sentì le note... », Povero caro amico, povero 
Alberto, che doveva anche lui finire così, sul ciglio di 
un marciapiede, per quelle ruote maledette che lo tra 
volsero.  
 
  
 Vincenzo Buonassisi 
 
  
§§§
                         
 
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INDICE DEL LIBRO 
  
PREFAZIONE 
 
L'ANTOLOGIERA 
 
01-L'Iliade  
02-Dante e Beatrice  
03-Francesca da Rimini  
04-Don Chisciotte  
05-Amleto  
06-Otello  
07-Robinson Crusoe  
08-I dolori del giovane Werther  
09-I promessi sposi  
10-Ventimila leghe sotto i mari  
11-Tartarin di Tarascona  
12-La signora dalle camelie  
13-La Bohème  
14-La Tosca   
15-Il ratto delle Sabine  
 
LEGGENDE E NOVELLE  
 
16-La meledizione di Li-Tai-Po  
17-Lo scudiero innamorato  
18-L'ultima avventura di Don Giovanni  
19-Riviera  
20-Le sorprese della strada  
21-L'illusione  
22-L'istitutore  
 
CRONACHE PER TUTTE LE RUOTE  
 
23-Il discorso del defunto  
24-All'ombra dei cipressi  
25-La grazia   
26-Baci... salati  
27-La morte naturale  
28-Concorrenza sleale  
29-Il matrimonio mancato  
30-Donne moderne  
31-La settimana della serietà  
32-Centotreenne desideroso affetto ...  
33-Vendetta postuma  
34-Un piccolo difetto  
35-Manichini  
36-Il teorema dell'amore  
37-La moglie poetessa  
38-Disoccupati...  
39-Penultime notizie  
 
SNOB DOPOGUERRA  
 
40-Snob meneghino  
41-La contessina della borsa nera  
 
I BEAT 
 
42-Capelloni  
43-Ribelli  
44-Comizi «beat»  
45-Solo pazzi contano  
46-Generazione « beat »  
47-Degenerazione « beat »  
48-Il jazz  
49-Poeti «beat»  
50-Mondo « beat »  
51-Il peccato originale  
52-Programma « beat »  
53-I beat e il lavoro  
54-I beat e la droga  
55-Il mutismo  
56-Suicidio   
57-La nuova civiltà   
58-Tramonto dei beat   
59-La maledizione atomica   
60-I veri colpevoli   
61-Donne moderne   
62-Musica yè yè   
63-Le vogliamo nude   
  
   
		§§§
  
   
		L'ANTOLOGIERE 
 
01-L'ILIADE  
 
Agamennòne, con aspra voce,  
una fanciulla par che contenda  
al fiero Achille dal piè veloce,  
che si ritira sotto la tenda.  
Ringalluzzita, Troia fa festa,  
gridando - Evviva l'ira funesta!  
 
L' ira d'Achille, difatti, ai Greci  
procura lutti che non vi dico;  
Patroclo allora ne fa le veci  
e indossa l'armi del grande amico,  
ma il prode Ettorre mangia la foglia:  
prima lo uccide, dopo lo spoglia.  
 
Il piè veloce, che si commuove,  
mancando allora le bombe a mano,  
chiede a sua madre dell'armi nuove,  
forgiate apposta dal dio Vulcano;  
indi si lancia con cupa gioia  
contro il superbo figlio di Troia.  
 
La sposa e il padre, da un'alta torre,  
vedono infine con muto orrore  
l'inerte spoglia del prode Ettore  
legata al cocchio del vincitore.  
Il piè veloce quindi si calma  
e al vecchio padre rende la salma.  
 
Ed il motivo di quel trambusto?  
La bella moglie di Menelao,  
che, innamorata d'un bellimbusto,  
al tardo sposo diceva « ciao ».  
Oggi ancor guerre fa il mondo gramo,  
però le corna ce le teniamo.  
 
Si fan le guerre perché la gente,  
in fondo, è sempre di quello stampo,  
pronta alle risse, stolta e incosciente;  
ma, almeno, abbiamo la...guerra-lampo,  
cosicché d'anni, signori miei,  
anziché dieci, ne dura sei. 
 
  
   
		§§§
  
02-DANTE E BEATRICE
   
Fu in un mattino del maggio in fiore  
che la incontrasti, là sul Lungarno,  
e una promessa d'eterno amore.  
in quello sguardo leggesti indarno,  
fosco poeta dal viso scarno,  
cui giovò poco l'esser priore ...  
 
Se nelle storie dei grandi amori  
la tinta fosca non manca mai,  
Dante, non grava sui tuoi dolori  
- che in luce astrale sublimerai   
l'ombra sanguigna che un dì vedrai  
nell'empia bolgia dei peccatori.  
 
Tu la invocasti, mèta suprema:  
d'eterne rose, d'eterni gigli  
la rivestisti nel tuo poema,  
mentr'ella visse senza scompigli  
(diede al marito solo due figli,  
colta anzitempo dall'ora estrema).  
 
Suo padre, Falco dei Portinari,  
le aveva detto, forse a ragione:  
« Questi poeti senza denari  
sono una peste! C'è un'occasione:  
ti chiede in moglie messer Simone,  
che sa far solo dei buoni affari ».  
 
Forse fu meglio. Con cuore anelo,  
l'amata donna ti fu d'ausilio:  
se nella selva venne Virgilio  
a trarti in salvo con tanto zelo,  
fu per Beatrice, che in visibilio  
rivedrai dopo nel primo cielo.  
 
No, ser Simone fu meritorio:  
se non la moglie di quel mercante,  
ma fosse stata tua moglie, o Dante,  
quella sublime torre d'avorio,  
anzichè in cielo fra luci sante,  
l'avresti messa nel Purgatorio!
 
  
   
		§§§
  
03-FRANCESCA DA RIMINI
   
Lei, tutta accesa del suo ideale,  
si crede sposa di Paolo il bello,  
che per procura d'un suo fratello  
le ha detto invece quel « sì » fatale:  
quando s'accorge del vil tranello,  
naturalmente, resta un po' male.  
 
Trovarsi a letto con lo Sciancato  
(il quale ha un muso che fa paura),  
lei così bella, lei così pura,  
piena d'affetto per quel cognato  
così carino, così garbato,  
che insiste ancora nella procura...  
 
Ma il giovinetto Malatestino,  
pur con un occhio, scopre la tresca;  
egli è un malvagio, che dal destino  
per far del male riceve l'esca:  
nel dolce cuore della Francesca  
lui pure ha sete d'un posticino.  
 
Da lei respinto, va da Giovanni,  
del tradimento lo rende edotto.  
Paolo e Francesca, con pochi panni,  
stanno leggendo, quando Gianciotto,  
dinanzi al libro di Galeotto,  
li infilza urlando: «Che Dio vi danni! »  
 
Francesca narra le sue vicende  
nell'atra bolgia dicendo: «Amore  
che a cor gentile ratto s'apprende... »  
e maledice quel traditore.  
Paolo, rinchiuso nel suo dolore,  
singhiozza e tace, tace ed intende.  
 
Ma pensa, forse, dal pianto scosso:  
« Non la bufera che mai non sta  
di me fa strame nell'aer mosso,  
ma questa donna... Pietà, pietà!  
L'ho tanto amata: ma averla addosso  
per quanto è eterna l'eternità!...».
 
  
   
		§§§
  
04-DON CHISCIOTTE
   
S'era venduto molti poderi,  
saltando pure diversi pranzi,  
per acquistare dei bei romanzi  
con strane storie d'avventurieri.  
E un giorno disse: - Io d'ora innanzi  
sarò il più ardito dei cavalieri. -  
 
Rimise a nuovo qualche armatura  
che nella vecchia casa rinvenne  
e, d'una bolsa cavalcatura  
saltato in groppa, tronfio e solenne  
il cavaliere già cinquantenne  
partì gridando: - Niente paura!  
 
Dapprima solo con la sua lancia,  
dell'alte imprese tentò il sentiero;  
poi risoluto lasciò la Mancia,  
accompagnato da uno scudiero:  
quel pover'uomo di Sancio Pancia,  
a cui promise gloria d'impero.  
 
Oh le avventure di Don Chisciotte!  
Per un'armata scambia un armento,  
vede in tranquilli mulini a vento  
truci giganti, nemici a frotte,  
ma prende tante di quelle botte  
che dice: - Basta, non me la sento!... -  
 
Ammaestrato da tanti scorni,  
mette giudizio rapidamente,  
sicché decide: - Meglio ch'io torni  
al mio mestiere di possidente!   
(Fu, in fondo, molto più intelligente  
dei Don Chisciotte dei nostri giorni...)  
 
Si rende conto che non è fatto  
per la famosa cavalleria:  
torna rurale gettando via  
armi e romanzi...Di tratto in tratto,  
però, ripete con nostalgia:  
- Quant'era meglio quand'ero matto!... 
 
  
   
		§§§
  
05-AMLETO
   
Un giorno Amleto nel suo castello  
vede lo spettro del padre amato,  
che gli rivela: «M'ha avvelenato  
quel farabutto di mio fratello  
e, ancor di pianto fresco l'avello,  
la sposa e il trono m'ha poi soffiato ».  
 
Nel dolce cuore del giovanetto,  
che vagheggiava sublimi aurore,  
angelo nero scende il dolore:  
un dubbio atroce gli cova in petto;  
ed egli insorge contro ogni affetto,  
spregia la gloria, sdegna l'amore.  
 
Si finge pazzo, vaneggia e celia;  
contro la corte, che n'è accasciata,  
dalle sue labbra scocca spietata,  
come una freccia, la contumelia.  
Simula pure dinanzi a Ofelia,  
la pia fanciulla che ha tanto amata.  
 
Quando la incontra sulla sua via,  
più non la tratta che a teschi in faccia:  
« Va in un convento! », così la schiaccia  
sotto il macigno dell'ironia.  
Alla tapina cascan le braccia  
dinanzi al ghigno della follia.  
 
Vede sfiorire nel triste oblio  
le rose, un tempo così leggiadre.  
Il fosco prence le ammazza il padre,  
gran ciambellano del re suo zio;  
e l'orfanella, già senza madre,  
si getta in acqua volando a Dio.  
 
Amleto (essere oppur non essere?)  
nell'incertezza trafigge tutti;  
la sua vendetta continua a tessere  
e, chi di ferro, chi in mezzo ai flutti,  
mentre nel regno cresce il malessere,  
casati interi vengon distrutti.  
 
Nel cimitero lui si diverte  
a intervistare l'affossatore:  
fra un brano e l'altro, fredda Laerte;  
il re s'abbatte; lui stesso muore;  
l'iniqua madre rimane inerte...  
Si salva il solo suggeritore. 
 
  
   
		§§§
  
06-OTELLO
   
Dopo che Otello, regolarmente,  
domò l'orgoglio del mussulmano,  
fu dal Senato repubblicano  
mandato a Cipro come reggente.  
Cassio era il fido luogotenente,  
Jago l'alfiere del capitano.  
 
Otello è un negro, ma un dì conquista  
una fanciulla che impalma e adora,  
mentre dal Doge giustizia implora  
il di lei padre, persona in vista,  
perché - sostiene - lo disonora  
quel matrimonio di razza mista.  
 
J ago era un uomo pieno di fiele,  
che odiava il capo, nonché il compagno,  
e che credeva, bieco e grifagno,  
nella potenza d'un dio crudele,  
per cui, tenace, sinistro ragno,  
soltanto ordiva malvage tele.  
 
Tolse a Desdemona un fazzoletto,  
che il nero sposo le aveva dato,  
e fece in modo che poi trovato  
fosse di Cassio vicino al letto:  
più nero, morso dal rio sospetto,  
divenne Otello, lo sventurato.  
 
E in una notte di frenesia  
il cimitero si popolò;  
la sposa disse l'avemaria,  
lui col guanciale la soffocò  
(che brutta cosa la gelosia!):  
« Come sei pallida! » indi esclamò.  
 
Ma quando seppe del vil tranello,  
le pie memorie tra sè rivisse,  
maledì Jago, poi si trafisse,  
presso l'amata, con un coltello.  
(« Come sei pallido! » nessun gli disse,  
poi ch'era moro, povero Otello). 
 
  
   
		§§§
  
07-ROBINSON CRUSOÈ 
  
Viveva a Londra, stava benino,  
ma aveva l'estro del vagabondo;  
e s'imbarcava su un brigantino,  
che per disgrazia colava a fondo.  
Riuscì a salvarsi, partì di nuovo,  
ma d'un pirata finì nel covo.  
 
Da lì fuggito, sbarcò in Brasile,  
dove a bizzeffe l'oro ammassava;  
ma aveva un sogno ben più virile:  
l'Africa nera lo affascinava.  
Ed intraprese quel grande viaggio,  
accompagnato da un equipaggio.  
 
Naufragò ancora (ma che disdetta!)  
e i suoi compagni periron tutti;  
lo sciagurato su un'isoletta  
fu sballottato da immani flutti.  
Robinson disse - Ma, Crusoè,  
il cielo tutte le manda a te! -  
 
Lì, se abbondava la selvaggina,  
d'esseri umani nessuna traccia;  
e avendo seco la carabina,  
per ventott'anni visse di caccia.  
Finché un moretto trovò un bel dì,  
cui diede il nome di Venerdì.  
 
Nella sua tenda non fu più solo.  
E, finalmente, dal suo ritiro  
scorge una nave, che al patrio suolo  
lo riconduce. Fu un bel respiro,  
mentre oggi (e a dirlo me ne vergogno)  
quell'isoletta sarebbe un sogno.  
 
Dolce, solinga, mite dimora...  
Felice, il mondo, chi può lasciarlo!  
Senza pur dire che, s'egli allora  
lungi dal mondo potè trovarlo,  
oggi, nel pazzo mondo di qui,  
manchiamo tutti d'un... venerdì! 
 
  
   
		§§§
  
08-I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
  
La prima volta vide Carlotta,  
pronta ad uscire per una danza,  
che divideva mezza pagnotta  
tra i fratellini nella sua stanza:  
fin da quel giorno prese una cotta  
senza rimedio, senza speranza.  
 
Fece amicizia col fidanzato  
della fanciulla, chiamato Alberto,  
ch'era un signore molto inesperto,  
molto noioso, molto educato.  
S'ella lo amasse non è ben certo:  
la storia ancora non ha indagato.  
 
So che la mamma, presso a spirare,  
levando il capo di tra i cuscini,  
le aveva detto: - Non ti scordare  
della merenda per i bambini.   
Eran presenti pochi vicini,  
le indicò Alberto: - Lo puoi sposare. -  
 
Tutte le sere, con ansietà,  
Werther andava dalla fanciulla,  
che singhiozzava per un nonnulla,  
come s'usava tanti anni fa.  
E la sedusse?... Ma che vi frulla?  
C'era in quei tempi più serietà.  
 
No; cercò invece fra nuove cure  
l'oblio, lontano, ma poi tornò;  
narrò a Carlotta le sue sventure,  
lei non rispose né sì né no,  
ma pianse tanto; pianse lui pure;  
perfino Alberto ci lacrimò.  
 
E un giorno Werther si diè la morte.  
Carlotta disse: - Che cosa orrenda!  
Guardò quel corpo dietro la tenda,  
ritornò a casa, baciò il consorte,  
chiamò i bambini, tagliò il panforte,  
poich'era l'ora della merenda. 
 
  
   
		§§§
  
09-I PROMESSI SPOSI
  
Quanti fastidi, Lucia Mondella,  
pur di sposare quel tessitore!  
Tutto, o vezzosa contadinella,  
perché facesti gola a un signore,  
che disse a un prete poco esemplare:  
« Quel matrimonio non s'ha da fare ».  
 
Sfuggita al bruto che ti voleva,  
ti rifugiasti presso una suora,  
che, sciagurata, se la intendeva  
coi più famosi gangster d'allora:  
fosti rapita - te ne rammenti?   
da una masnada di malviventi.  
 
Chiusa dapprima dentro un castello,  
poi trionfasti, come si sa,  
solo assistita da un fraticello  
e dalla fede nell'onestà.  
E desti a Renzo saggi consigli,  
la pace e, credo, dodici figli.  
 
Se al giorno d'oggi tu fossi il sogno  
od il capriccio di Don Rodrigo,  
oh non avrebbe costui bisogno  
di combinare quel bell'intrigo,  
mettendo in mezzo l'Innominato,  
che farà ammenda del suo passato.  
 
Ma ti direbbe semplicemente:  
« Ho un palazzotto ch'è un vero amore;  
vieni a trovarmi, senza dir niente  
nè al Tramaglino nè al confessore.  
Cosa vuoi farne di quel plebeo,  
che non può darti l'Alfa-Romeo? »  
 
Aver gioielli, pellicce, vesti,  
villa sul lago, cambiar destino...  
Lucia Mondella, tu pianteresti  
quello spiantato di Tramaglino,  
a Don Rodrigo diresti « sì »,  
ed il romanzo morrebbe qui!
 
  
   
		§§§
  
10-VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI 
  
Col rostro duro come il destino,  
con gli occhi accesi come due fari,  
l'ignoto mostro sottomarino  
già da più tempo batteva i mari.  
E per colpire l'orrenda fiera  
nacque il progetto d'una crociera.  
 
Uno scienziato poco prudente,  
che accompagnava la spedizione,  
del truce mostro fosforescente  
con due compagni cade prigione:  
il suo fedele servo Consiglio  
e un canadese dal fiero ciglio.  
 
Ma non è un mostro, quello: è una nave,  
su cui si trova, capo supremo,  
nerovestito, crucciato e grave,  
il favoloso capitan Nemo,  
uomo geniale (se ben ricordo,  
aveva pure la radio a bordo).  
 
è un bel vascello, con ferrea chiglia,  
che s'inabissa, che torna a galla,  
che fa in un'ora quaranta miglia...  
« Quel Giulio Verne, quante ne sballa! »  
(S'era nell'anno, signori miei,  
milleottocentosessantasei! )  
 
Capitan Nemo conduce in gita  
quei prigionieri per mesi e mesi.  
è inviperito contro la vita  
e, soprattutto, contro gl'Inglesi,  
ai quali affonda più d'un vapore:  
quel Giulio Verne, che precursore! ...  
 
Gran romanziere, cervello pazzo,  
ch'ebbe ai suoi tempi molta fortuna,  
in un suo libro descrive un razzo,  
che vola dritto fin sulla Luna:  
se pure in questo Verne ha azzeccato,  
astro d'argento, tu sei spacciato!
 
  
   
		§§§
  
11-TARTARIN DI TARASCONA
  
Gli originali tarasconesi  
sono felici d'andare a caccia;  
ma, mentre in tutti gli altri paesi  
chi tira al tordo, chi alla beccaccia,  
lì c'è una gente meno ordinaria:  
tira a un berretto lanciato in aria.  
 
Ma a Tarascona giunge un serraglio,  
e Tartarino, con energia,  
vuole un leone come bersaglio,  
per cui s'imbarca per l'Algeria:  
brache alla turca, fiasca a tracolla,  
parte acclamato da una gran folla.  
 
Giunge, sbattuto dal mal di mare,  
due casse d'armi portando seco,  
e dopo lungo peregrinare  
fredda un leone domato e cieco,  
che, con un piatto fra i pochi denti,  
era al servizio di due pezzenti.  
 
Riceve tante di quelle botte  
e ha tante noie, ch'egli, un bel giorno,  
più Sancio Pancia che Don Chisciotte  
prudentemente pensa al ritorno,  
spedendo avanti, come campione,  
la vecchia pelle di quel leone. 
 
Nudo, avvilito, con un cammello  
zoppo e ingombrante (lo immaginate?),  
giunge contrito nel paesello,  
dove s'aspetta fischi e pedate:  
ha invece applausi, corone e inchini  
dagli entusiasti concittadini. 
 
E si convince sinceramente  
ch'egli ha lottato contro i leoni;  
mai cacciatore più intraprendente  
ebbe più belle soddisfazioni...  
Perchè il successo dà più alla testa,  
quando la gloria non è che questa! 
 
  
   
		§§§
  
12-LA SIGNORA DALLE CAMELIE
  
Fra un atto e l'altro di un melodramma,  
in un palchetto dei Varietés,  
un giorno, Armando Duval s'infiamma  
per gli occhi belli della Gauthier:  
siamo nell'anno (tutto un programma)  
mille e ottocentoquarantatrè.  
 
Quelli eran tempi! Quelle eran cotte!  
Vi basti dire che Margherita,  
folle d'amore, la stessa notte,  
per lui decise di cambiar vita:  
perché non era ch'una «cocotte »,  
per quanto ancora poco scaltrita.  
 
Ma i sentimenti non eran brutti:  
camelie bianche, camelie rosse;  
amava i fiori più assai dei frutti,  
soffriva pure d'un po' di tosse  
(nell'Ottocento tossivan tutti:  
io non so dirvi che cosa fosse).  
 
Con lui, felice, quasi in miseria,  
visse in campagna fantasticando.  
Ma il di lui padre, persona seria,  
corse a trovarla: «Lasciate Armando!  
Non è -le disse - per cattiveria:  
ho una figliuola che sta sposando ».  
 
E Margherita tornò a Parigi,  
gioie e camelie vi ritrovò.  
Lui non comprese, fece litigi,  
di contumelie la ricolmò,  
le gettò in faccia venti luigi,  
così gridando: «Pagata io v'ho! ».  
 
Morì, da tutti dimenticata,  
morì di tisi, morì d'amore.  
Divenne, dopo, la Traviata,  
primo soprano. Primo tenore,  
divenne Armando (che fine ingrata!)  
Alfredo Alfredo di questo core. 
 
  
   
		§§§
  
13-LA BOHÈME
  
Non han mai visto mezzo luigi;  
nel caminetto non un fuscello:  
Schaunard solfeggia, pinge Marcello,  
Colline è un sofo; nei cieli bigi  
guarda Rodolfo, poeta e bello,  
fumar dai mille tetti Parigi.  
 
Entra in iscena, dolce e soave,  
Mimì, fioraia gaia ma onesta:  
sogna una cuffia molto modesta;  
ha un po' di tosse: niente di grave.  
Mimì nel buio perde la chiave;  
Rodolfo, invece, perde la testa.  
 
Questi, nel vecchio Quartier Latino,  
compra una cuffia: che meraviglia!  
Ma lei tossisce, lei s'assottiglia,  
e non c'è fuoco dentro il camino.  
C'è un moscardino di viscontino,  
che le farebbe l'occhio di triglia: 
  
meglio lasciarla... Mimì è malata,  
la tosse aumenta, le: scuote il petto  
(non c'è mai fuoco nel caminetto),  
ha la manina sempre gelata:  
la poverina non è tagliata  
per sopportare quel freddo abbietto.  
 
Nella soffitta si fa gazzarra,  
ma la tristezza nel cuore regna...  
Mimì ritorna, così si narra,  
ma nel camino non c'è mai legna.  
Colline intona « Vecchia zimarra »  
ed il cappotto senz'altro impegna. 
 
Ella ritrova sotto il guanciale  
la rosea cuffia dei suoi bei dì;  
ma la piccina sta tanto male,  
han tutti il cuore gonfio così...  
Cade la neve sul davanzale,  
mentr'ella muore. Mimì... Mimì... 
 
  
   
		§§§
  
14-LA TOSCA 
  
Cavaradossi, mite pittore,  
nella cappella degli Attavanti  
dipinge, a Roma, madonne e santi,  
mentre lei vive d'arte e d'amore.  
Una casetta, cinta da un orto,  
offre agli amanti pace e conforto.  
 
Ma in quella casa, per mala sorte,  
ad un ribelle lui dà rifugio,  
sicché, scoperto da un vil segugio,  
è condannato senz'altro a morte:  
su nel Castello, cristianamente,  
fucileranno quell'innocente.  
 
Scarpia, che infuria nel Pontificio,  
spietato birro dall'aria fosca,  
ama lui pure l'ardente Tosca  
e la riceve nel proprio ufficio,  
dov'ella in pianto lo prega e ottiene  
ch'egli risparmi l'amato bene.  
 
Sarà una finta fucilazione  
e i due colombi potran fuggire,  
- lui le assicura - se alle sue mire  
ella, s'intende, si sottopone;  
quand'è in possesso del passaporto,  
però, la donna lo stende morto.  
 
Ma nel Castello, dov'ella accorre,  
spara, il plotone, non già per burla:  
lui disperato muore, lei urla  
e poi si getta dall'alta torre.  
La progettata fuga è fallita:  
l'ora, soltanto l'ora è fuggita! 
 
  
   
		§§§
  
15-IL RATTO DELLE SABINE
  
SOLDATI E PLEBEI CONVERSANO NEL FORO  
 
PRIMA VOCE 
  
Re Romolo, in fondo, fu molto cortese  
a darci un asilo nel proprio paese.  
 
SECONDA VOCE 
 
Sapete, ragazzi, che Roma è assai bella?  
 
TERZA VOCE  
 
Però, che peccato, neppure un'ancella! ... 
 
QUARTA VOCE  
 
C'è un'aria stupenda, c'è un sole che ammalia.  
 
SECONDA VOCE  
 
Però non ci trovi neppure una balia!...  
 
PRIMA VOCE  
 
C'è il tempio ove Giano bifronte s'invoca...  
 
TERZA VOCE  
 
Però non ci trovi neppure una cuoca!...  
 
QUARTA VOCE  
 
Magnifico il tempio che han fatto a Minerva!  
 
PRIMA VOCE  
 
Però, non ci trovi neppure una serva...  
 
SECONDA VOCE  
 
Vi sono le terme con archi e colonne,  
con l'acqua corrente...  
 
TERZA VOCE 
 
Ma mancan le donne!... 
  
           NELLA REGIA 
ROMOLO E IL SENATORE GIULIO PROCULO  
 
ROMOLO  
 
Caro Giulio, che ne dici?  
Ho dei sudditi felici?  
 
GIULIO 
 
Son passato per il Foro  
e ho sentito i detti loro.  
Ecco, in genere, le turbe  
son contente assai dell'Urbe;  
son contente, oggi come oggi,  
delle terme e degli alloggi:  
ma si tratta di soldati,  
sono giovani e... affamati.  
 
ROMOLO  
 
Non è buono forse il rancio?  
Eppur grava sul bilancio...  
 
GIULIO  
 
Non è questo esattamente:  
hanno il sangue un po' bollente,  
e li rode un tarlo insonne,  
perché mancano le donne.  
Debbo dirti, illustre sire,  
che assai male andrà a finire:  
se non trovi qualche idea,  
scoppierà l'ira plebea.  
 
ROMOLO  
 
Questi bèceri non sanno  
che la donna porta danno  
e che quando han preso moglie,  
più nessuno gliela toglie.  
Tuttavia, provvederò,  
e in che modo ti dirò:  
puoi senz'altro garantire  
che avran donne a non finire.  
 
GIULIO  
 
Non capisco: fino adesso  
non avemmo alcun successo.  
Tu volesti, un anno fa,  
popolar questa città,  
dando asilo a tutti quanti,  
malandrini e lestofanti,  
e di avanzi di galera  
affluì tutta una schiera.  
Ben tu sai che di recente  
proponemmo inutilmente  
alle donne dei vicini  
di sposar quei malandrini:  
tra i Romani, lo san tutti,  
vi son fior di farabutti. 
  
ROMOLO 
 
Ma se vogliono sposare,  
ho deciso sul da fare:  
per raggiungere quel fine,  
rapiremo le Sabine.  
Una bella festicciola,  
ed è pronta la tagliola.  
 
GIULIO 
  
Questa idea non è sballata.  
 
ROMOLO 
 
Chiama tutti all'adunata| 
 
  LE TROMBE SUONANO L'ADUNATA 
 
BANDITORE  
 
Cittadini, soldati, centurioni!  
Hanno deciso, il popolo e il Senato,  
che prendan moglie tutti quei fresconi  
ai quali più non garba il celibato.  
Centurioni, soldati, cittadini,  
sposerete le donne dei Sabini.  
 
(Grida di evviva, esclamazioni di giubilo)  
 
UN SOLDATO  
 
Le Sabine son famose  
come ancelle e come spose,  
e dovunque dir si sente  
che son buone veramente...  
 
BANDITORE 
  
Dieci messi domattina  
partiran per la Sabina,  
per diffondere al più presto  
il seguente manifesto:  
 
« Uomini e donne di qualsiasi parte!  
In onore di Romolo e di Marte,  
Roma, agl'idi di maggio, all'ore venti,  
darà una festa senza precedenti:  
musica in piazza, fuochi artificiali  
e giochi divertenti e originali;  
l'ora del dilettante, il "Musichiere",  
regali in quantità, vino a piacere.  
Spettacolo superbo: udite, udite,  
specie le donne... ne saran rapite ».  
 
IN PIAZZA, IL GIORNO 15 MAGGIO, ORE 20 FOLLA DI PLEBEI E SOLDATI - GRUPPI DI SABINI   
 
SOLDATI  
 
-Per Cerere, però, queste Sabine!  
Avete visto quanto son carine? ...  
 
-Io, la mia l'ho adocchiata: è quella mora  
laggiù: ci ha 'na boccuccia che innamora...  
 
-Io scelgo quella bruna con lo scialle  
azzurro e la sottana a strisce gialle...  
 
UN GRADUATO (accostandosi al gruppo,sottovoce)  
 
-Allora, siamo intesi: non appena  
la banda attaccherà l'inno ad Atena,  
voi seguite con l'occhio il centurione,  
il quale snuderà lo sciabolone;  
e allora tutti addosso alle ragazze,  
che invano grideranno come pazze:  
i tamburi, i tromboni e la cornetta  
faranno una caciara maledetta.  
 
UN PLEBEO  
 
E li Sabini?  
 
UN SOLDATO  
 
S'hanno da sta' zitti,  
o li mandiamo al Cerbero diritti! 
  
 
LA BANDA ATTACCA, IL CENTURIONE FA IL SEGNALE.  
RAPIMENTO DELLE DONNE, STRILLI, CLAMORE   
 
UN SABINO  
 
Romanacci villanzoni,  
farabutti, mascalzoni!  
Ma domani torneremo  
con le frecce e coi bastoni,  
e la pelle vi faremo,  
traditori, sporcaccioni!  
Fra le mura demolite  
non rimanga alcun Quirite ...  
 
UN ROMANO (sghignazzando) 
  
Però, dopo il matrimonio...  
 
UN SABINO  
 
Non rimanga alcun Sempronio,  
non rimanga alcun Orazio!  
 
UN ROMANO  
 
Ce saluti a Tito Tazio! ...  
(Musica sul motivo di «Piove»)  
 
VOCE (urla)  
 
Ciao, ciao Sabina... 
  
IL GIORNO SEGUENTE  
(Suono di tromba) 
 
BANDITORE  
 
Soldati, centurioni, cittadini,  
Romani, all'armi! Giungono i Sabini!  
I patrizi e i plebei tutti nel Foro!  
 
UN SOLDATO (sbadigliando)  
 
Ma proprio adesso, li mortacci loro! ...  
(Ha inizio il combattimento fra Romani e Sabini) 
  
UN SABINO  
 
Disgraziati! Farabutti!  
Vi faremo a pezzi tutti ...  
(Arrivano le donne sabine, urlando e piangendo)  
 
UNA SABINA  
 
Un momento! Cosa fate?  
Perché dunque vi ammazzate?  
Via quell'armi, immantinenti,  
poi che ormai siete parenti!  
O fratelli, o padri nostri...  
 
UN SABINO  
 
Vi togliamo a questi mostri!  
 
UNA SABINA 
  
Arrivate troppo tardi:  
siamo spose!...  
 
UN SABINO 
 
Dio vi guardi  
dal contrarre un matrimonio  
con i figli del demonio!  
 
UNA SABINA  
 
Ma il demonio, dopo tutto,  
non ci sembra così brutto...  
 
ROMOLO  
 
Per por fine a questo strazio,  
venga avanti Tito Tazio:  
potrei fargli una proposta...  
 
TITO TAZIO  
 
Hai una bella faccia tosta!  
 
ROMOLO  
 
Siamo, in fondo, dei Latini:  
noi Romani, voi Sabini.  
Se prendessimo l'impegno  
di fondare un solo regno?  
 
TITO TAZIO  
 
Quest'idea mi piacerebbe,  
ma di noi chi il re sarebbe? 
 
ROMOLO 
 
Tutti e due. Che te ne pare?  
 
TITO TAZIO 
  
Ci potremmo anche accordare... 
 
GIULIO PROCULO 
  
Piacerà molto ai Romani,  
perché, avendo due sovrani,  
son felici, in quanto sanno  
che a nessuno ubbidiranno.  
 
CORO 
 
Finite le botte, finite le pene:  
Romani e Sabini, volemose bene!  
 
TITO TAZIO  
 
Però, quel matrimonio, un po' affrettato,  
andrebbe forse regolarizzato.  
 
ROMOLO 
 
E lo farò... Romani cittadini,  
che rapiste le donne dei Sabini,  
sarebbe troppo comodo, si sa,  
se la faccenda terminasse qua.  
Adesso, tutti quanti in Campidoglio!  
 
UN ROMANO  
 
E incominciano i guai pel portafoglio!  
(La banda intona la « Marcia nuziale ») 
 
  
LEGGENDE E NOVELLE
 
  
   
		§§§
  
16-LA MALEDIZIONE DI LI-TAI-PO
  
        (leggenda cinese)  
 
Questa storia gentile e idiota,  
narrata dal saggio Lao-tze,  
avvenne in un' epoca ignota  
nella santa città di Chen-te.  
 
       * * *  
Conquistati i Nove Fiumi,  
il terribile Wen-Tso  
come sempre chiese lumi  
alla maga Li-Tai-Po.  
 
E la strega inavveduta:  
«Prendi moglie» gli rispose,  
« la più saggia delle spose,  
la più bella e la più muta ».  
 
Un veloce messaggero,  
con quel bando singolare,  
per le terre dell'impero  
fino ai lembi del Gran Mare  
 
instancabile viaggia  
per trovare una donzella,  
che sia muta e che sia bella,  
che sia bella e che sia saggia.  
 
Giunse un giorno la novella  
nella casa di bambù  
d'una vaga pastorella  
che chiamavasi Li-Ju, 
 
dalle guance gialle gialle,  
dalle ciglia nere nere,  
che abitava nella Valle  
delle Cento Capinere, 
 
La sua mamma, ch'era astuta,  
ebbe subito un'idea:  
« Mia Li-Ju, fior d'orchidea,  
farai finta d'esser muta.  
 
Mia Li-Ju, se tu diventi  
la divina imperatrice,  
avrai vesti e servi e armenti  
sarai nobile e felice ».  
 
Camminò per miglia e miglia,  
per due mesi o forse tre,  
finchè giunse con la figlia  
al castello di Chen-te.  
 
I terribili dragoni,  
tutti in marmo, del dio Fo  
vigilavano i bastioni  
del palazzo di Wen-Tso.  
 
La fanciulla fu condotta  
presso il trono del gagliardo,  
che, felice, al primo sguardo  
n'ebbe l'anima sedotta.  
 
Egli disse: «Io ben confido  
ch'ella saggia e muta sia,  
o la lingua le recido  
e lo stesso sarà mia ».  
 
La pulzella, ancor più vaga  
nel tremore e nell'affanno,  
presentata fu alla maga  
che serviva il gran tiranno;  
 
e la femmina malvagia  
sottopose l'infelice  
alla prova inquisitrice  
dello spillo e della bragia.  
 
La fanciulla risoluta  
non gemette, non fiatò,  
e la maga Li-Tai-Po  
si convinse ch'era muta.  
 
Intrecciarono i capelli  
al guerriero e alla sua sposa,  
ricoperta di gioielli,  
gialla al pari d'una rosa; 
 
e sfilaron dieci re,  
quattrocento mandarini,  
cinquemila palanchini  
per le strade di Chen-te.  
 
         * * *  
Nella Sublime Casa  
la noia era feroce!  
Dalla tristezza invasa,  
Li-Ju, senza più voce, 
 
errava pel giardino  
più grande d'una serra:  
nemmeno un granellino  
di polvere per terra.  
 
E chi sa quante foglie  
accumulava il vento,  
laggiù, presso le soglie  
del focolare spento!  
 
E con le gote gialle  
sfiorite sempre più,  
sognava, nella Valle,  
la casa di bambù  
 
e le lontane sere  
in cui cantava: «Amore... »  
come le capinere  
gioiendo d'ogni fiore. 
  
         * * *  
Il romantico soldato  
Chen-Tao-Seng era infelice,  
follemente innamorato  
della bella imperatrice:  
 
«Se le manca la parola,  
non può certo denunziarmi... »  
E ogni volta ch'era sola,  
la cullava coi suoi carmi.  
 
«Sei fresca come l'aurora,  
o principessa Li-Ju;  
la tua piccola bocca odora  
come il fiore che odora di più.  
Dànno splendore gli spilli  
d'oro e le gemme fastose,  
dànno profumo le rose,  
gli uccelli son pieni di trilli,  
ma dal mio povero amore  
non nasce che un umile canto  
con un profumo di cuore  
ed un sapore di pianto... »  
 
Taceva la principessa  
a quella voce sommessa.  
Ma quando la sera, al sussurro  
d'un invisibile coro,  
con la veste di notte e d'azzurro  
ricamata di nuvole d'oro,  
ella schiudeva le bianche  
cortine del letto d'argento,  
guardava le stelle un po' stanche,  
ascoltava il sospiro del vento  
(ma senza un gemito: accanto  
sentiva russare il suo sire),  
e ripensava a quel canto,  
e non poteva dormire.  
 
E un giorno le irruppe dal petto  
la voce in un grido selvaggio:  
« Io t'amo, Chen-Tao, mio diletto!  
Io t'amo!... » E una notte di maggio,  
l'imperatrice e Chen-Tao  
fuggiron cantando: «Ciao-ciao... »  
 
           * * *  
L'imperatore furente,  
legata la maga Tai-Po,  
la fece gettar crudelmente  
nelle acque del fiume Lo-ho.  
 
E la maga Li-Tai-Po,  
per vendetta e per dispregio 
fece allora un sortilegio  
che i mortali rovinò.  
 
Così disse: «Che la donna  
ora e sempre sia loquace,  
sicché mai non abbia pace  
chi s'accosta ad una gonna!  
 
Parli, parli in sempiterno,  
la sua lingua mai s'asciutti!... »  
Così disse, e andò all'inferno  
dileguando in mezzo ai flutti.  
 
Quel terribile anatéma  
sugli umani s'abbattè,  
com'è scritto nel poema  
del saggissimo Lao-tze. 
 
  
   
		§§§
  
17-LO SCUDIERO INNAMORATO
  
  (Novella medioevale) 
 
Il visconte Rinaldo era, in più fieri  
tempi, un potente e ricco signorotto,  
in gamba ancora, pur se già anzianotto,  
e al suo comando cento e più scudieri  
contava, tra cui Lando era il più ghiotto.  
 
Viveva nel castello monna Berta,  
sua leggiadra metà da appena un anno:  
un anno appena e già lui stava all'erta,  
dal giorno in cui l'avevano scoperta  
fra le braccia di un ospite normanno. 
 
La teneva da allora prigioniera  
nell'alta torre, il burbero Rinaldo,  
ma assai l'amava e, appassionato e caldo,  
era geloso pur di quella schiera  
di servi, di cui Lando era il più baldo.  
 
Dodici ancelle, fino a notte oscura,  
restavano a vegliarla, e nessun uomo, 
sotto pena di morte o di tortura,  
poteva penetrar fra quelle mura,  
salvo l'innocuo vecchio maggiordomo.  
 
Era Lando, per lei, pazzo d'amore,  
pronto a sfidare la più dura pena,  
anche la morte, per un bacio appena  
di quelle ardenti labbra: era, il suo cuore,  
bruciato come un'ala di falena.  
 
« L'avrò, l'avrò, lo giuro ». Egli sapeva  
(e il petto gli s'empiva di speranze)  
che il castellano, quando non cedeva  
ai rari appelli delle grazie d'Eva,  
dormiva sempre nelle proprie stanze.  
 
Ed una notte il fiero garzoncello  
osò, dicendo: «Vivere non giova  
senza di lei, per lei morire è bello ».  
E, salito sul tetto del castello,  
entrò furtivo nella calda alcova.  
 
Di nulla sospettò la donna amata,  
per quanto grande fosse il suo stupore  
sentendo, quella notte, il suo signore,  
acceso da una febbre inusitata,  
con tanta forza stringerla al suo cuore.  
 
Poi tornò svelto, il giovane scudiero,  
caldo di baci, nella camerata  
dove dormiva tutta la brigata,  
lasciando in braccio a un sogno di mistero  
la bella castellana addormentata.  
 
Gli piacque il gioco e a lei fece ritorno  
per molte notti e mai sbagliò indirizzo.  
Ella, talvolta, gli lanciava un frizzo:  
« Mio potente signor, di giorno in giorno,  
voi diventate sempre più rubizzo ... » 
 
Ma in una fosca notte, ecco, succede  
che dall'alcova è appena uscito Lando  
ch'entra il visconte. Allora, ella gli chiede:  
« Signor mio, qui di nuovo? ... » Egli intravede  
la verità; sveglia le ancelle, urlando;  
 
si precipita giù come una furia...  
Il maggiordomo, tremebondo, accorre...  
« Voglio saper chi il piede ha osato porre  
nella sua stanza: il reo di tanta ingiuria  
sarà impiccato a un merlo della torre ».  
 
Tosto s'allontanò l'astuto e vecchio  
servo; nel buio, senza far rumore,  
entrò nel dormitorio e, inquisitore,  
sul petto di ciascun pose l'orecchio  
per ascoltarne i battiti del cuore. 
 
Udì che il cuor d'un giovane garzone  
batteva forte, forte più d'ogni altro;  
gli tagliò allora, senza esitazione,  
un ciuffo di capelli e dal padrone  
ritornò, dopo, il maggiordomo scaltro.  
 
Gli disse: «Signoria, saprete il nome  
di quell'empio, non datevi pensiero;  
domani all'alba, il perfido scudiero  
che porti un segno di mancanti chiome  
sarà impiccato a un merlo del maniero »',  
 
Capì che i suoi minuti eran contati,  
Lando, e s'alzò, deciso e circospetto;  
percorse il dormitorio in tutti i lati  
e, a tutti i suoi compagni addormentati  
tagliato il ciuffo, si rimise a letto.  
 
All'indomani, cupo e truculento,  
i suoi scudieri radunò il visconte;  
ma nel vederli, in preda allo sgomento,  
balbettò solo: «Sono stati in cento! » ...  
E desolato si grattò la fronte. 
 
  
   
		§§§
  
18-L'ULTIMA AVVENTURA DI DON GIOVANNI
  
Malinconico sbadiglia,  
sulla porta veneranda  
d'una piccola locanda  
sulla strada di Siviglia,  
 
un hidalgo:l'elsa impugna  
d'una spada cesellata,  
ha la giacca ricamata  
di velluto colar prugna 
 
la mantella grigio-chiara;  
porta al mignolo una gemma,  
dov'è incisa sul suo stemma  
la ragion: NADA ME PARA.  
 
Giunge or ora da Parigi,  
ed è stanco; è stanco pure  
d'una vita d'avventure,  
di menzogne e di prodigi. 
 
Ma respira: questa sera  
sarà solo in una stanza.  
E' una sera da romanza,  
dolce, tiepida, leggera;  
 
l'ombra è scesa silenziosa  
sulla strada di Siviglia,  
sulla terra che somiglia  
a una camera da sposa... 
 
Ad un tratto, nel giardino  
un fruscìo lieve di gonna:  
il profumo d'una donna  
gli dà un tuffo repentino,  
 
il profumo dell'amore  
passa rapido e indistinto:  
a quel fiuto, per istinto,  
balza il vecchio cacciatore.  
 
Dietro un grosso sicomoro  
si rifugia e può vedere  
una dama e un cavaliere  
che conversano fra loro.  
 
Scorge i vaghi lineamenti  
d'una splendida andalusa,  
che felice ascolta e illusa  
queste frasi inconcludenti:  
 
« Mai tanta ebbrezza avvampante  
arder sentii nelle vene;  
Fernanda, non vedo altro bene  
fuori del vostro sembiante, 
 
di questa carne d'avorio,  
di queste nerissime chiome...  
Se può interessarvi il mio nome,  
mi chiamo Giovanni Tenorio... »  
 
(Questo nome era famoso  
fra le dame di Siviglia:  
il terror d'ogni famiglia,  
il terrore d'ogni sposo!) 
 
« Voi, don Giovanni? » La donna  
ha un piccolo grido, poi tace;  
s'ode nell'ombra, fugace,  
quel lieve frusciare di gonna...  
 
« Vi ho tanto sognata!... » « Che dite!  
Voi siete un amante infedele,  
avete sul cuore crudele  
il peso di tante tradite... » 
 
«Ma siete voi la più bella!  
- il caldo amatore sospira.   
Siete più bella d'Elvira,  
siete più dolce d'Estella... » 
 
Fernanda lo ascolta tremante...  
« Venite! - egli tende l'insidia.   
pensate, le donne, d'invidia  
impazziran tutte quante! 
 
Verrete, lo so! Non appena  
con la sua luce importuna  
sarà tramontata la luna  
dietro la Sierra Morena,  
 
voi scenderete in istrada... »  
«E dove mi condurrete? »  
« Ci porterà nella quiete  
d'una divina contrada  
 
la più bella delle carrozze,  
i cavalli avranno le ali:  
le stelle saranno i fanali  
delle nostre magnifiche nozze... »  
 
       * * * 
Dopo un'ora, pensierosa,  
affacciata alla veranda  
della piccola locanda,  
sta la dama un po' nervosa,  
 
e nell'ansia che l'afferra  
ella aspetta tremebonda  
che la luna si nasconda  
dietro i gioghi della Sierra.  
 
« Posso offrirvi i miei servigi,  
se in qualcosa, Ustèd, io valgo? ... »  
E' la voce dell'hidalgo,  
arrivato da Parigi:  
 
una voce inopportuna  
nell'attesa di quell'ora.  
Egli parla, parla ancora  
al chiarore della luna.  
 
La signora è un po' restia  
agli audaci complimenti,  
ma l'hidalgo trova accenti  
d'amarezza e d'ironia; 
 
le sussurra: « Ahimé! Voi pure,  
come l'altre, come tutte,  
siano belle, siano brutte,  
siano giovani o mature, 
 
voi dal fascino d'un nome  
- don Giovanni! - siete attratta... »  
Ella insorge stupefatta:  
« Voi sapete? E come? come?... » 
 
« Nulla sfugge a un cuor che ama!  
Ed io v'amo; e non mi glorio,  
io, del nome d'un Tenorio,  
non aspiro alla sua fama! 
 
Egli coglie e poi calpesta,  
deridendolo, ogni fiore!  
Non sapete che il suo cuore  
è una trappola funesta?... »  
 
Quella voce! Mai nessuna  
fu più calda e più suadente:   
ha il sussurro d'un torrente  
sotto i raggi della luna.  
 
Ora, trepida, l'ascolta  
e « Chi siete? » gli domanda  
la romantica Fernanda,  
che si sente un po' sconvolta.  
 
« Che v'importa, o dolce fata?  
Galoppai per miglia e miglia  
alla volta di Siviglia  
per trovarvi; e v'ho trovata. »  
 
« Ma chi siete? » « Che v'importa,  
poi che il dono dell'amore  
non ha nome? Conta il cuore,  
non il nome che si porta...  
 
No, Fernanda, don Giovanni  
non v'avrà! Voi non ci andrete:  
voi, Fernanda, non cadrete  
nel più vile degl'inganni!... »  
 
        * * * 
La luna è scomparsa fra un nimbo  
di nubi, ma il cielo è un poema,  
dove ogni stella che trema  
somiglia ad un cuore di bimbo. 
 
Una carrozza divora  
la strada deserta, nel blando  
chiaror delle stelle, portando  
l'hidalgo e la bella signora, 
 
l'hidalgo che al dito ha lo stemma  
col NADA ME PARA e ai fugaci  
tesori d'ebbrezze e di baci  
aggiunge una piccola gemma.  
 
Nè sa quella donna, per cui  
l'hidalgo sospira d'amore,  
chi sia quello strano signore:  
Giovanni Tenorio, era lui! 
 
  
   
		§§§
  
19-RIVIERA 
  
Una moglie ideale, umile, brava;  
ma da quattr'anni gli era sempre accanto,  
e il marito, si sa, di tanto in tanto,  
un po' di libertà la sospirava.  
 
Un giorno s'ammalò, povera Tea:  
oh, solo una febbretta, un raffreddore,  
niente di più! Ma, amico del dottore,  
il marito vigliacco ebbe un'idea:  
 
« Dille ch'è stanca, ch'ha una brutta cera  
e che una cura è più che necessaria,  
che le s'impone un cambiamento d'aria:  
venti giorni a Sanremo, a Bordighera... »  
 
La povera signora - oh che castigo!   
si ribellò: «Non posso, è una pazzia! »  
Cecè, però, fu pieno d'energia:  
« E' per la tua salute e non transigo »,  
 
Preparò le valigie a precipizio  
lui stesso. La signora desolata 
pianse, gemè per tutta la giornata:  
« Non sopporterò mai questo supplizio! »  
 
Quando il treno partì, trasse un respiro  
Cesarino; non stava più nei panni  
dalla felicità: dopo quattr'anni...  
Provava come un dolce capogiro.  
 
Che rimorso, però... Povera cara:  
meglio mandarle subito un espresso,  
che lo riceva l'indomani stesso  
e la distanza le sia meno amara... 
 
Si mette, dopo, in abito da sera:  
ma dov'è la cravatta?... E' disperato:  
non trova nulla, ahimè, coadiuvato  
inutilmente dalla cameriera.  
 
Il giorno dopo pranza al ristorante,  
felice al fianco d'una vecchia amica...  
Felice? E' strano, ma quell'aria antica  
gli fa un effetto un po' debilitante...  
 
Il terzo giorno è orribilmente lungo:  
lo lascia indifferente ogni programma,  
sente in sè il vuoto. E manda un telegramma  
urgente: «Pianto tutto e ti raggiungo ».  
 
La povera signora era in Riviera,  
discesa in un albergo civettuolo;  
pensa a Cecè, così lontano, solo,  
triste; ma l'aria è tepida e leggera. 
 
Quanta eleganza intorno! E su quel mare,  
oh, quante vele e quanti sogni! Trova  
ch'è bello, bello... E poi, quell'aria nuova  
le fa un effetto tanto singolare.  
 
E tutto ciò che vede e ciò che ascolta  
le dà come un dolcissimo languore:  
il capogiro? Già, come un liquore  
che beva adesso per la prima volta.  
 
La corteggiano tutti; anzi, ha ballato  
ieri con uno che... se lo sapesse  
Cecè, Dio mio, Dio mio!... La sera, lesse  
il telegramma e sospirò « Peccato! »  
 
  
   
		§§§
  
20-LE SORPRESE DELLA STRADA(*)
  
Lungo i viali attoniti e deserti, 
già da un pezzo le foglie eran cadute,  
povere foglie, quasi anime mute,  
inaridite, accartocciate, inerti: 
 
Ma non eran cadute unicamente, 
in quel lembo di strada solitaria, 
le foglie morte, che impregnavan l'aria 
della loro tristezza inconsistente ; 
 
era caduta pure una borsetta; 
caduta a qualche piccola borghese,  
forse, che aveva fatto tante spese,  
aveva tanti pacchi e andava in fretta. 
 
Poverina, era lì, timida, triste,  
quella borsetta, in quella via remota,  
già rassegnata alla sua sorte ignota 
palpitante d'incognite impreviste... 
 
Ed ecco un uomo, un vagabondo forse, 
che camminava placido, distratto, 
inteso a quel brusio di foglie ; a un tratto,  
col batticuore, la borsetta scorse. 
 
Lo raccattò, furtivo, circospetto, 
quasi temendo d'esser colto in fallo...  
Il rosso in un astuccio di metallo... 
una chiave... la cipria... il fazzoletto... 
 
mille lire... una lettera piegata 
d'uomo? di donna?... D'uomo, era sicuro  
non c'è una donna che si chiami Arturo!  
E, dopo, cominciava : « Mia adorata ». 
 
Spiegò, con calma, il foglio un po' sgualcito  
e lesse, ripetendo alcuni brani 
a mezza voce : « Giungerò domani...  
solito posto... attenta a tuo marito... ». 
 
Nome? Indirizzo? Nulla... - E' fortunata! 
Non vuol dir, però:certo, a qust'ora, 
starà pensando, povera signora, 
alla borsetta...se sarà trovata...- 
 
E intascò il foglio. Poi scrollò le spalle; 
il buio della notte era imminente: 
depose la borsetta nuovamente 
tra quelle foglie accortocciate e gialle. 
 
Trasse quindi di tasca il dolce scritto,  
che in cento pezzi seminò d'intorno,  
fra sè dicendo : - Se farà ritorno, 
vedrà distrutto il corpo del delitto... - 
 
E se n'andò, commosso oltre ogni dire 
pel bene fatto ad una creatura  
ignota... All'osteria, dietro le mura,  
si bevve, dopo, quelle mille lire. 
 
Barcollando nel buio che l'attornia,  
poi rincasa... La moglie : - Che disdetta,  
caro !- gli disse. - Ho perso la borsetta  
con mille lire!... - Gli passò la sbornia.
  
-- 
(*)
 
La stessa poesia, leggermente modificata, si trova pure
nella raccolta "Reparto Agitati " col titolo: "La borsetta perduta" 
 
  
   
		§§§
  
21-L'ILLUSIONE (*)
  
Sul marciapiede d'una via remota,  
in un mattino grigio e sonnolento,  
stavano insieme un mozzicone spento  
di sigaretta, un gambo di carota, 
 
un chiodo usato ed altri avanzi vili,  
quando un fuscello, spinto dalla brezza,  
cadde sul gruppo... « Eh, che delicatezza!  
Potresti aver dei modi più civili! 
 
Non sai chi sono! » il mozzicone esclama.  
Ed il fuscello : « Guarda un po'! Si picca  
d'essere chi sa chi, mentre è una cicca !... » 
« Io sono una gran dama, una gran dama! » 
 
protesta allor la cieca inviperita. 
« Anzi, lo fui: perché, vile fuscello,  
perdei tre quarti del mio corpo snello  
su quel rogo che chiamano la vita... 
 
Ero una sigaretta d'Orïente 
e ben nove sorelle ebbi : con loro  
trovai rifugio in una stanza d'oro,  
ove poltrivo deliziosamente. 
 
Si spalancò la porta all'improvviso, 
un giorno, ed una mano - era una mano  
tepida, d'un candore sovrumano -  
mi trasse fuori, m'accostò ad un viso 
 
e li per li... » « T'appiccò il fuoco, pare! » 
interruppe un fiammifero di legno,  
carbonizzato per metà. Con sdegno,  
il mozzicone replicò : « Volgare ! 
 
M'appiccò il fuoco! Pose una corona  
di fiamma sul mio capo, intendi dire.  
S'alzò l'incenso in voluttuose spire,  
mentre, affondata nella sua poltrona, 
 
mi stringeva una dama fra le dita  
dolci e -nervose, sature d'unguenti, 
e mi portava alle sue labbra ardenti,  
ardenti e rosse come una ferita. 
 
Felice, assaporando il mio profumo,  
seguiva le mutevoli chimere  
che disegnavan, labili e leggiere,  
le volute azzurrognole del fumo. 
 
E parlava, parlava... Io non capivo  
quel che diceva : sono un'egiziana.  
Ma sentivo una musica lontana  
in quella voce, simile ad un rivo 
 
che gorgogliasse sotto la nascente  
luna... Ascoltavo in estasi, rapita,  
senz'accorgermi ancor che la mia vita  
si consumava inesorabilmente. 
 
Diceva, forse, appassionata e stanca:  
-Io non ho mai fumato sigaretta 
più delicata...- Poi,l'ultima stretta, 
e mi depose su una coppa bianca, 
 
dove mi vide, con il cuor commosso, 
finire, come un sogno che tramonta...  
Sulla mia carta serbo ancor l'impronta  
delle sue labbra, come un fiore rosso...» 
 
Trasse un sospiro e tacque, emozionata,  
immersa nel dolcissimo ricordo.  
La riscosse il fiammifero balordo,  
scoppiando in una stridula risata. 
 
« Illusa! » esclamò dopo. « Io la conosco,  
quella lingua! Mi chiamano svedese,  
ma, lo confesso, sono del paese,  
originario d'un vicino bosco. 
 
Quelle :parole sovrumane e tènere 
di cui parli, le intesi : ero presente. 
T'accesi io stesso e ignominiosamente  
finimmo nello stesso portacenere. 
 
Te fortunata, che non hai sentito 
che la dolcezza della bocca d'Eva,  
senza comprender quello che diceva... 
perché parlava, sai, di suo marito ! » 
  
--
 
(*) 
La poesia si trova anche nelle raccolte: 
- Reparto Agitari 
- Radiocronache rimate 
 
  
   
		§§§
  
22-L'ISTITUTORE 
  
Nessuno dei passanti ha mai capito  
che cosa accadde l'altro giorno, in Piazza  
Dante, fra una biondissima ragazza,  
il giovane studente Aldo De Tito  
 
e il signor B., rettore d'un convitto.  
Aldo cammina accanto a quella bionda,  
quando una voce rauca e furibonda  
urla: « De Tito, lei!... Con qual diritto?  
 
E i suoi ragazzi?» E lui: «Guardi, signore,  
che lei si sbaglia» «Non mi sbaglio un fico!»  
La biondina non sa che quel suo amico  
è in un collegio a far l'istitutore:  
 
ascolta le parole di rampogna  
che quel tipo rivolge allo studente,  
e s'apre un varco, risolutamente,  
tra quei curiosi, rossa di vergogna.  
 
Aldo s'è fatto pallido, balbetta,  
mentre dal lato opposto, ecco, i ragazzi  
si son fermati e ridon come pazzi,  
gustando quella sapida scenetta.  
 
Ora, la cosa è subito spiegata:  
l'istitutore aveva appuntamento  
con la sua bella, e all'ultimo momento  
dovette uscire con la camerata.  
 
Pensò: «Ci vo lo stesso », e brevemente  
disse ai ragazzi: «Ognuno al proprio posto  
e in gamba, o guai! » Dal marciapiede opposto  
li vigilava, come indifferente...  
 
(Ragazzi di collegio: han nei cassetti  
fotografie di sconosciute amanti,  
donne misteriose e affascinanti,  
che ammirano rapiti e circospetti;  
 
carezzan tutti un avvenire egregio:  
poeti, artisti, eroi diventeranno;  
lungi l'idea che, forse, tra qualche hanno  
faran gl'istitutori in un collegio...)  
 
Il giovane, s'intende, è un po' avvilito:  
istitutore, oh dio! Ma in fondo in fondo  
sono pochi a saperlo: egli, pel mondo,  
è lo studente in legge Aldo De Tito.  
 
E guarda quelle facce consumate  
d'adolescenti, i piccoli nemici  
che rendon tetre inutili infelici  
l'ore più belle delle sue giornate;  
 
che in lui vedono solo un secondino,  
mentre non è che un povero ragazzo,  
che ci starebbe a far dello schiamazzo,  
benché non studi più greco e latino.  
 
Tutte le sere, dietro la sua tenda,  
dopo aver fatto dir l'avemaria,  
veglia pensando alla malinconia  
di chi non ha una donna che lo attenda...  
 
Ora è di nuovo libero: ha perduto  
l'impiego e la ragazza in un sol giorno.  
Son le dieci di sera: egli va intorno  
solitario, un po' triste, un po' abbattuto...  
 
I convittori sono adesso a letto,  
ma non dormono: vedono ombre mute,  
pensano a quelle donne sconosciute,  
chiuse in un libro in fondo ad un cassetto.
 
  
   
		§§§
  
CRONACHE PER TUTTE LE RUOTE
  
   
		§§§
  
23-IL DISCORSO DEL DEFUNTO (*)
  
[In una cittadina americana, un ricco misantropo ottantaquattrenne 
ha voluto tenere lui stesso in chiesa il suo discorso funebre, 
mediante un disco fatto incidere qualche giorno prima di morire.]  
 
I parenti in gramaglie: « Un cenobita! 
originale sì, ma che brav'uomo! ».  
dicevano di lui, quando nel Duomo,  
innanzi ad una folla incuriosita,  
sul catafalco il disco entrò in azione, 
e il defunto scandì questa concione: 
 
« Cari amici e parenti, io sono morto,  
lontano ormai dalle miserie umane, 
e di dir vino al vino e pane al pane  
ho finalmente il piccolo conforto,  
quello che mai non ebbi in vita mia  
per convenienza o per ipocrisia. 
 
« Nelle mie numerose primavere  
(ottantaquattro) ho visto, a conti fatti,  
che in una gabbia di sfrenati matti 
s'è trasformato il mondo e, a mio parere,  
poterne uscir nell'ora più opportuna,  
anche portati a spalla, è una fortuna. 
 
« Io non v'invidio, o voi che rimanete;  
e, visto che dal mondo, o prima o poi,  
sfolleran tutti e sfollerete voi,  
meglio sfollare a causa del diabete,  
della nefrite o della noce vomica,  
che per effetto della bomba atomica. 
 
« Dunque, parenti e amici, io non v'invidio.  
Ed ora, poiché immagino vogliate  
sapere in qual maniera ho sistemate  
le mie sostanze, v'evito il fastidio,  
con questo breve e semplice discorso,  
d'andar dal mio notaio. Ho già un rimorso: 
 
« so che voleste prendervi il disturbo  
d'accompagnarmi verso il camposanto  
con gli abiti da lutto e gli occhi in pianto,  
mentre è palese pure al meno furbo  
che innalzereste con commosso cuore  
inni al diabete, al medico e al Signore. 
 
« So che per voi non fui che un vecchio avaro,  
un vecchio pazzo, e da diversi lustri   
non facevate più, tangheri illustri,  
che aspettar la mia morte e il mio denaro.  
Lascio tutti i miei beni, in conseguenza,  
a un istituto di beneficenza. 
 
« rrivederci e grazie ». A questo punto, 
la hiesa si vuotava immantinenti; esterrefatti,  
lividi, furenti, fuggivan via gli eredi del defunto,  
pronti a deporre gli abiti da lutto: 
« Era un pazzo... un avaro... un farabutto!... ».
  
-- 
(*) 
Alberto Cavaliere 
la poesia si trova pure nella raccolta 
"Radiocronache rimate"  
 
  
   
		§§§
  
4-ALL'OMBRA DEI CIPRESSI
  
[Il venditore girovago Antonio Liuto, scoperto dal 
custode di un cimitero, presso Chioggia, mentre dormiva in una cella mortuaria, ha dichiarato che egli per abitudine pernotta sempre nei cimiteri, gli unici posti dove si riposa davvero in tranquillità.]  
 
Antonio vuol dormire indisturbato.  
Ha pernottato a volte in qualche albergo,  
ma all'indomani gli ha voltato il tergo,  
dopo un sonno interrotto ed agitato:  
anche di notte, un traffico, un viavai...  
«Io, negli alberghi, non ci andrò più mai ». 
 
Il cimitero (eh no, non c'è confronto!)  
offre davvero un placido riposo;  
nè, quando t'alzi, un avido ed esoso  
albergatore ti presenta il conto,  
che ti procura a volte un tale schianto,  
da spedirti per sempre al camposanto!  
 
E peggio degli alberghi, a quanto pare,  
son diventati i pubblici giardini,  
con questa crisi, pieni d'inquilini,  
con coppiette qua e là... Senza contare  
che, appena un poveraccio s'addormenta,  
una voce lo sveglia: «Documenta!»  
 
Il cimitero, invece, è l'ideale:  
un silenzio... di tomba: una delizia,  
quando s'è stanchi, l'oasi più propizia  
per un riposo pieno e sostanziale:  
al di qua di quel funebre cancello,  
non un passo, un bisbiglio, un campanello...  
 
In barba al folle traffico moderno,  
ch'anche la notte più non ti dà requie,  
lì puoi gustare, prima delle esequie,  
quasi un assaggio del riposo eterno:  
dormi coi morti, ma ti svegli ancora,  
risalutando la novella aurora.  
 
E poi, c'è questo: l'uomo, in generale,  
prende purtroppo il... vizio della vita  
e, giunta l'ora della dipartita,  
non si rassegna al proprio funerale,  
spesso si mette a urlar come un dannato,  
disturbando i parenti e il vicinato.  
 
Antonio, invece, no: nel camposanto,  
all'idea della morte egli s'allena  
e un bel giorno dirà, turbato appena  
da un'ombra di lievissimo rimpianto  
(lo sa che, prima o dopo, è inevitabile):  
« Resterò qui per sempre, in pianta stabile ». 
 
  
   
		§§§
  
25-LA GRAZIA
  
[Graziato per buona condotta dopo 53 anni d'ergastolo l'ottantenne Felice Antonelli ha un aspetto straordinariamente florido e gode di una salute di ferro.]   
 
E' un vecchio ottantenne,  
ma ancora robusto,  
dall'aria solenne  
nell'abito frusto,  
 
ha un'ottima cera,  
nè accusa malanni:  
è stato in galera  
cinquantatrè anni.  
 
Sul dorso non porta  
che un lieve fagotto,  
ch'è tutta la scorta  
del fu galeotto:  
 
due vecchie camicie,  
qualche altro indumento  
(ma attento, Felice,  
ricordati, attento!  
 
Sparire dal dorso  
ti può in un baleno:  
nel secolo scorso  
rubavan di meno...).  
 
Per strada cammina  
con passo deciso,  
a qualche biondina  
lanciando un sorriso:  
 
fa un po' il dongiovanni,  
si sente giocondo.  
Cinquantatrè anni  
lontano dal mondo...  
 
A parte il rimorso  
d'aver ammazzato  
(nel secolo scorso  
sembrava un reato!),  
 
in fondo, ha vissuto  
dormendo d'impegno,  
se non sul velluto,  
sia pure sul legno.  
 
Non ha mai firmato  
contratti e cambiali,  
non solo, ha evitato  
due guerre mondiali, 
 
comizi, adunate,  
discorsi, litigi;  
per cui vi spiegate  
per quali prodigi  
 
sia fresco, gioviale,  
così ben disposto,  
col polso normale,  
col fegato a posto.  
 
Ma c'è da temere  
che presto deluso  
dovrai rimanere,  
tu, vecchio recluso.  
 
Ancora tu giri  
gli attoniti occhi  
d'un bimbo che ammiri  
dei nuovi balocchi; 
 
ma, povero amico,  
t'accorgerai presto  
di quanto ti dico:  
l'ergastolo è questo! 
 
Oh, quello di prima  
non fu che un ristoro,  
goduto in un clima  
di pace e lavoro...  
 
Se ancora tu speri  
che Dio ti conservi  
con miti pensieri, 
con placidi nervi, 
 
a rotta di collo  
ti tocca spedire,  
su carta da bollo  
da trentadue lire,  
 
la supplica ardente  
(e il Cielo ringrazia  
se il buon Presidente  
t'accorda la grazia!),  
 
chiedendo clemenza  
con questa preghiera:  
« Permette, Eccellenza,  
che torni in galera ».
 
  
   
		§§§
  
26-BACI...SALATI
  
[Un professore trentacinquenne, Lorenzo S., ha ricevuto l'intimazione di pagare L. 5.500 per «aver baciato una persona di sesso diverso» lungo la strada nazionale della Riviera Ligure.]  
 
«Nel mezzo del cammin di nostra vita »,  
nonché nel mezzo d'una strada ombrosa,  
un professor di lettere a un'estrosa  
febbre abbandona l'anima rapita:  
perché talvolta il bambinello Amore  
gioca dei tiri pure a un professore. 
 
Passeggiava Lorenzo in riva al mare,  
felice a fianco d'una figlia d'Eva,  
ed insegnando alla sua dolce allieva  
a coniugar l'antico verbo « amare »,  
o commentando forse il sommo Dante,  
...la bocca le baciò tutto tremante. 
 
Ma, per disgrazia, come un'ombra occulta,  
mentr'ei baciava il « desiato riso »,  
ecco un'irsuta guardia all'improvviso  
sorgergli innanzi e prendergli la mu1ta.  
Il professore sospirò interdetto:  
« Soli eravamo e senz'alcun sospetto ... » 
 
Se l'infortunio ingrato e impreveduto  
colpiva, un tempo, uno scavezzacollo,  
con dieci e dieci (ivi compreso il bollo)  
passava la paura: era un tributo  
che ci faceva dire a cuor giocando:  
« Ne valeva la pena, in fondo in fondo... » 
  
Adesso è il bacio che il maggior aumento,  
purtroppo, ohimè, fra tante merci accusa,  
è la merce di scambio più diffusa  
che sale a cinquemila e cinquecento,  
anche se udremo un cerbero spietato  
dir « Cinque e cinque », a risparmiare il fiato.  
 
E se dovesse il celebre Cirano  
chiedersi ancor: «Ma poi, che cosa è un bacio? ~>,  
rinnegando il dolcissimo mendacio  
di quel famoso ed ispirato brano,  
risponderebbe in termini aggiornati:  
«La bancarotta degli innamorati!... »  
 
Quindi in gamba, ragazzi, e sempre all'erta,  
mentre alle autorità costituite  
chiediamo che una legge un po' più mite  
protegga le espansioni all'aria aperta,  
anche per l'alto costo degli alloggi  
che complica l'amore al giorno d'oggi.  
 
I sindacati tentino un ricorso  
e, difendendo una categoria,  
anche in omaggio alla demografia,  
facciano in modo che agli aumenti in corso,  
almeno per gli scapoli tenaci,  
s'aggiunga un indennizzo: il caro-baci!
 
  
   
		§§§
  
27-LA MORTE NATURALE
  
[Su 296 persone morte a Nuova York il primo dell'anno, 280 sono state vittime di cadute e d'incidenti stradali.]   
 
In tutta Nuova York, a Capodanno,  
son morte appena sedici persone:  
influenza, vecchiaia, indigestione,  
tifo, scorbuto, mille ed un malanno  
alla morte quel dì non han potuto  
che dar quel modestissimo tributo.  
 
Parliamo, qui, di morte naturale,  
di quella gentilissima signora,  
la quale, un certo giorno, a una cert'ora,  
viene a trovarvi a casa e in generale  
vi serve l'olio santo e il cataletto  
a domicilio, in camera da letto.  
 
Chiede il permesso, manda avanti medici,  
preti, notai, congiunti e conoscenti;  
di modo che, con tanti complimenti,  
riusciva solo a visitar quei sedici:  
su nove e più milioni d'abitanti,  
bisogna convenir che non son tanti. 
 
Ma a Nuova York, in quello stesso giorno,  
alzatisi al mattino ilari e arzilli,  
sani di corpo, immuni da baciIli,  
a casa non facevano ritorno  
duecentottanta: andati al Creatore  
senza il concorso di nessun dottore.  
 
Scontri, cadute; gente avvinazzata  
che, reso un gaio omaggio all'anno nuovo,  
tornava barcollando al proprio covo  
per dormirvi tranquilla una giornata,  
e che finiva sotto quattro ruote,  
poichè del clackson non sentì le note... 
 
La scienza, che da secoli s'ingegna  
di prolungare agli uomini la vita,  
a compiere miracoli è riuscita;  
la morte, tuttavia, non si rassegna:  
scacciata dalla porta, agile e destra  
entra, per così dir, dalla finestra. 
 
è li in agguato, in fondo a quella china,  
o dietro quel semaforo, o procede  
ebbra di whisky o gin: per cento prede  
che le contende la penicillina,  
in barba a tutti gli angeli custodi,  
ne ghermisce trecento in altri modi.  
 
 
E, proseguendo il ritmo del processo,  
quella sarà la morte naturale;  
non darà più notizia alcun giornale  
di questo o di quel tragico decesso,  
ma leggeremo un titolo in grassetto:  
« è riuscito a morir nel proprio letto! »
 
  
   
		§§§
  
28-CONCORRENZA SLEALE 
  
[Nell'Alta Marna alcuni ignoti hanno svaligiato un treno 
postale, lasciandovi un biglietto in cui dichiaravano 
che erano persone oneste, spinte alla rapina dal bisogno.]   
 
Con tutte le rapine e i rapimenti  
che infiorano la cronaca a dovizia,  
non farebbe più effetto la notizia  
che alcuni temerari malviventi,  
con bombe a mano e mitra di contorno,  
hanno assalito un treno in pieno giorno.  
 
E al fatto, che ci ha scossi e ci ha stupiti,  
non avremmo accennato, oggi, nemmeno,  
se ad assalire e a svaligiar quel treno  
fossero stati i soliti banditi:  
è che purtroppo a compiere la gesta  
è stata invece della gente onesta.  
 
Gente perbene, che lasciò un biglietto  
pel direttore della polizia,  
vergato là per là, senza ironia,  
anzi, improntato al massimo rispetto,  
dichiarando turbata, anzi, sconvolta,  
che rapinava per la prima volta;  
 
e ch'era onesta, e che il bisogno ingrato  
l'aveva spinta a consumar l'impresa,  
poiché trovare i soldi per la spesa  
oggi è un problema tanto complicato:  
sicché molto spiacente e assai confusa,  
concludeva così, chiedendo scusa...  
 
No, no, signori miei! Per questa via  
noi torneremo ancor nelle foreste,  
dove, persone oneste e disoneste,  
ci sbraneremo senza ipocrisia.  
Ridiamo al mondo la vernice d'oro  
dell'onestà, del senno e del decoro!  
 
Come in tempi più miti e più sereni,  
ci siano pure i ladri: è necessario,  
dato che il mondo è bello perch'è vario;  
ma siano loro a svaligiare i treni,  
nè debban dire: «Ci mancava questa:  
la concorrenza della gente onesta... » 
 
  
   
		§§§
  
29-IL MATRIMONIO MANCATO
  
[Un marinaio, invece di presentarsi al rito nuziale, 
manda alla sposa un telegramma, comunicandole che 
ha cambiato idea.]   
 
Tutto era pronto: il lungo velo bianco,  
anche i fiori d'arancio, anche il banchetto,  
gli amici e i testimoni in doppiopetto,  
nonché la sposa con il padre a fianco;  
mancava solamente il fidanzato,  
che aveva a Tonia eterna fe' giurato:  
 
Gustavo Tollené, di professione  
marinaio fluviale «Adesso arriva,  
non può tardare » E ancor non appariva,  
mentre fra le duecento e più persone,  
amiche dello sposo e della sposa,  
ormai l'attesa s'era fatta ansiosa.  
 
Già l'ombra ammanta la superba mole  
del vecchio Saint-Denis lungo la Senna:  
e Gustavo non c'è... Qualcuno accenna  
ad un proverbio antico come il sole,  
secondo cui quei bravi marinai  
prometton sempre e non mantengon mai. 
 
« Ma che sarà successo? »... Aspetta, aspetta,  
viene, non viene, viene... All'improvviso,  
ecco apparire il parroco indeciso,  
che porge un telegramma ad Antonietta,  
un telegramma che diceva, ohimè:  
« Cambiato idea non sposo - TOLLENE' ».  
 
La sposa scoppia in lacrime, gli amici  
fan commenti maligni od indignati,  
i parenti son tutti costernati,  
le amiche (va da sè) sono felici,  
e tutti quanti pensano al banchetto  
con nostalgia, con fame e con dispetto.  
 
Il padre della sposa, un navigante,  
non si trattiene più, prende cappello  
(aveva pronte a bordo d'un battello  
alcune casse d'ottimo spumante):  
colpito nella borsa e nell'onore,  
egli intenta un processo al... disertore.  
 
Io sto pensando adesso a un'altra cosa:  
che trovate di spirito ha la gente!  
Mai che una volta a me s'affacci in mente  
un'idea così buona e luminosa!  
Che ci voleva, fatemi il piacere:  
« Cambiato idea non sposo - CAVALIERE ». 
 
  
   
		§§§
  
30-DONNE MODERNE
  
[Un'attrice di Hollywood, sposata da pochi mesi con 
un ricco agricoltore, è fuggita per ignota destinazione 
a bordo di un aeroplano da lei pilotato.]   
 
Avemmo un dì su picchi da avvoltoi  
castelli poderosi e truculenti:  
la donna, con sottili accorgimenti,  
se la squagliò dai ponti levatoi. 
 
Fu confinata, simile alle suore,  
dietro le fitte grate secentesche:  
con la complicità delle fantesche,  
fuggì in lettiga dietro un nuovo amore.  
 
Poi vennero i romanzi (escluso il giallo,  
proprio di questa età calamitosa):  
più insofferente al gioco e più animosa,  
rapir si fece a dorso di cavallo.  
 
Nel primo novecento, ancor sereno,  
ma già anelante a più veloci corse,  
per disertare il talamo ricorse  
borghesemente ad un fumoso treno.  
 
Vedemmo poi, più rapido e più frivolo,  
l'automobile andar di balza in balza,  
e lei se ne invaghì. Ma il tempo incalza:  
la donna ormai si serve del velivolo.  
 
Ma ciò che mi stupisce è che il marito  
la vuole al proprio fianco ad ogni costo;  
non bada a spese il tanghero, è disposto  
a dissipare il patrimonio avito.  
 
Ha assunto tre piloti al suo servizio  
perchè gliela ritrovino senz'altro...  
Per conto mio, quell'uomo è poco scaltro  
e non possiede un'oncia di giudizio.  
 
Io no! Votato ai più deserti giorni,  
scrutando l'orizzonte sconfinato,  
con un sorriso ambiguo e rassegnato  
direi così: «Speriamo che non torni ».
 
  
   
		§§§
  
31-LA SETTIMANA DELLA SERIETÀ
  
[L'Ente Provinciale per il Turismo ha organizzato a 
Roma un carnevale d'altri tempi.]   
 
In più leggiadri tempi, il carnevale  
non era che una valvola di sfogo:  
persone d'ogni casta e d'ogni luogo,  
dandosi in braccio a una follia legale,  
per sette dì mettevano a tacere  
il decoro, il buon senso ed il dovere.  
 
L'umanità sfilava per la via  
nei più grotteschi e variopinti aspetti,  
fra mitraglie di carta e di confetti  
e carri... armati solo d'allegria;  
dopo di che, pel resto dell'annata,  
ridiventava saggia e costumata.  
 
Dicon che il mondo adesso è assai più serio,  
che del diletto s'è perduta l'arte;  
e invece, da mill'anni a questa parte,  
mai s'era visto tanto putiferio,  
mai, nella storia delle genti umane,  
s'eran vedute maschere più strane.  
 
Viviamo in una specie di quaresima,  
truccata tuttavia da carnevale:  
la vita, in un cancàn paradossale,  
in tutte le stagioni è la medesima,  
un misto di digiuno e di baldoria  
nel segno d'una grinta jettatoria,  
 
E' quindi con un filo di speranza  
che l'ultima notizia abbiamo appresa:  
in diverse città, Roma compresa,  
si vuol tornare a quell'antica usanza:  
dimenticar la noia e la mattana  
pel breve volger d'una settimana.  
 
Ma, giacché siamo in tempi di riforme,  
se noi vogliamo far del carnevale  
una saggia parentesi annuale  
a questa insania eterna ed uniforme,  
esso diventi per l'umanità  
la settimana... della serietà.  
 
Pensate che bellezza, amici miei!  
Niente più scherzi di cattivo gusto,  
abolito ogni chiasso, ogni trambusto,  
non più comizi, scioperi, cortei,  
messi a tacer per sette giorni all'anno  
la frenesia, la crapula, l'inganno...  
 
La gente, ritemprata dalle sane  
virtù d'una parentesi serena,  
riprenderebbe poi con nuova lena,  
per l'altre cinquantuno settimane,  
il solito tran tran, ridando il « via»  
al frastuono, alle ciance, alla follia...
  
--- 
N.B.
 
Con lo stesso titolo ma con testo diverso
si trova nella raccolta "Milano...e poeu pu" 
 
  
   
		§§§
  
32-CENTOTRENTENNE  DESIDEROSO AFFETTO...
  
[Un matusalemme jugoslavo, mediante un'inserzione 
pubblicitaria riesce a trovare la tredicesima moglie.]   
 
Baschtiàn Kosciàn è un vecchio jugoslavo,  
che un primato ambitissimo detiene:  
ha sul groppone (chi lo batte è bravo)  
centotrent'anni e se li porta bene;  
se lo vedeste, sembra un giovanotto:  
ne dimostra sì e no... centodiciotto!  
 
Presso Kossòvo, dove è stabilito,  
ha fatto, quel vecchietto indiavolato,  
la più bella carriera di marito  
che immaginar si possa: ha accompagnato  
al camposanto dodici convogli  
(pensate che costanza!): eran le mogli...  
 
Ebbene, aveva espresso, ultimamente,  
il desiderio di sposar di nuovo;  
ma il bel sesso rimase indifferente,  
in tutta la regione di Kossòvo,  
per quanto al caldo appello del longevo  
la stampa desse il massimo rilievo.  
 
Già Baschtiàn disperava; e un dì la posta  
gli porta fresca fresca una sorpresa:  
gli è giunta da Chicago una proposta  
strabiliante, incredibile, inattesa:  
certa Maria Panwett, entusiasmata,  
s'è offerta di sposarlo; è già salpata...  
 
E' una donna non brutta, un po' volubile  
(un diffuso giornale americano  
l'ha intervistata) ed è rimasta nubile,  
perché... nessuno ha chiesto la sua mano:  
ora, in barba ai passati disinganni,  
vuole sposare un secolo e trent'anni!  
 
Allo stesso giornale ha dichiarato  
che lo fa per buon cuore, intenerita  
da quel matusalemme in buono stato  
che chiede ancora un balsamo alla vita:  
sarà, benché la donna abbia in amore,  
assai spesso, più... fegato che cuore.
 
  
   
		§§§
  
33-VENDETTA POSTUMA
  
[Commovente storia di un fumatore perseguitato dal 
la moglie per quel suo vizio.]   
 
In fondo, mister Brat era un brav'uomo,  
un marito pacifico, esemplare  
e, soprattutto, un vero gentiluomo:  
aveva solo il vizio di fumare,  
seppure in questa età senza giudizio  
quello del fumo può chiamarsi un vizio. 
  
In tutto l'Oregon, dove viveva,  
era stimato: ricco a dismisura,  
se ne infischiava delle figlie d'Eva,  
trovava il whisky odioso addirittura;  
d'ogni umana virtù sembrava adorno;  
solo fumava: tre toscani al giorno.  
 
Ma mister Brat aveva, per disgrazia,  
una moglie bisbetica e cattiva;  
benché servita in tutto e sempre sazia,  
ella, quel vizio, il fumo, lo aborriva,  
sicché, dal giorno in cui s'era sposata,  
dormiva in una stanza separata.  
 
«Pensate, fuma! Fuma tre toscani...»  
«Non son poi tanti, spende poche lire! »  
« Ma mi appesta la casa ed ha le mani  
gialle di fumo e puzza da morire... »  
Il pover'uomo usciva con la bava,  
fumava il suo toscano e rincasava...  
 
Finché un giorno morì, non confortato  
da un'onda dolce di parole tenere:  
si spense come un sigaro, lasciato  
casualmente, così, su un portacenere.  
E tacque fino all'ultimo momento;  
ma affidò la vendetta al testamento.  
 
Dispose infatti: «Lascio interamente  
alla signora Brat i miei milioni,  
a patto che costei, se se la sente,  
fumi in presenza a quattro testimoni  
tre toscani ogni giorno, e il mio legale  
stenda ogni volta apposito verbale.»  
 
L'afflitta vedovona adesso fuma  
per non veder... sfumar l'eredità;  
maledice la vita, si consuma  
nella sua rabbia, sputa, e ben le sta...  
Ma son gl'inconvenienti dell'inizio:  
anch'essa, o prima o poi, prenderà il vizio! 
 
  
   
		§§§
  
34-UN PICCOLO DIFETTO
  
[Violenta rissa provocata in un caffè di Milano da 
sei donne, che si contendono un gobbetto.]   
 
Trentenne, capitale redditizio  
venti milioni, piccolo difetto,  
conoscerebbe scopo sposalizio  
seria illibata congrua dote affetto.  
Casella tale... Ricevè per posta  
duecentotrenta lettere in risposta:  
 
duecentotrenta lettere infiammate,  
dove altrettante languide zitelle  
- tutte, s'intende, serie ed illibate   
le lor virtù portavano alle stelle  
e al richiedente offrivansi devote,  
giurando eterna fe' con congrua dote.  
 
Egli rispose a sei. L'appuntamento  
è in un caffè del centro di Milano:  
sceglierà poi tra loro a piacimento.  
Segnale convenuto: un fiore in mano.  
Entra un gobbetto. Lui?... Certo, è in orario,  
ma quello non è un uomo, è un dromedario!  
 
Dato un rapido sguardo intenditore,  
senza esitare, il gobbo ganimede  
s'accosta ad una delle sei signore,  
la più piacente, e accanto a lei si siede.  
Le altre cinque illibate hanno un sospetto:  
che sia la gobba il «piccolo difetto? »  
 
E all'improvviso, come ad un segnale,  
si lancian tutte verso il tavolino  
dove il gobbetto, assai sentimentale,  
si sdilinquisce come un damerino.  
- Vigliacco! Farabutto!... - E chi le frena?  
A momenti gli spianano la schiena!  
 
Per terra si frantumano due tazze,  
accorrono le guardie... E quella giostra,  
perché si contendevan sei ragazze  
un benestante gobbo: il che dimostra  
(tanto è caro un marito a chi lo scopra)  
che al... difettuccio ci passavan sopra. 
 
  
   
		§§§
  
35-MANICHINI
  
[Ciò che accadde a un vecchio legatore di libri, il 
quale si lasciava sedurre dai manichini esposti nella 
vetrina di un negozio di moda.]   
 
Legatore di libri, rincasava  
da trent'anni, la sera, alla stess'ora;  
da un po' di tempo, adesso, ritardava  
e il fatto insospettì la sua signora:  
che si sia messo a fare il dongiovanni  
alla tenera età di sessant'anni?...  
 
A ripensarci su, da circa un mese  
gli ritrovava un'aria sbarazzina...  
Gli andò incontro, una sera, e lo sorprese  
fermo in via Roma, innanzi a una vetrina,  
a contemplar con gli occhi di chi sogna  
sei donne nude: all'età sua, vergogna!  
 
Donne di legno, oh dio, poco allettanti,  
dei manichini; sì, ma poi, la notte,  
il legno s'animava: esili amanti,  
spose rapite, vergini sedotte...  
La moglie, grassa asmatica cadente,  
ci scapitava irrirnediabilmente.  
 
Da molti giorni il vecchio, rincasando,  
sostava un'ora lì, con gioia enorme:  
si ricordava d'altri tempi, quando...  
eran di carne quelle elette forme.  
Disse alla sua metà, meno entusiasta,  
che pure l'occhio ha i suoi diritti e basta!  
 
E' finita la pace, ora, in famiglia.  
Il legatore va dal commissario,  
il quale è un uomo saggio e gli consiglia  
di ritornare ad osservar l'orario;  
lo prega, inoltre, d'una cortesia:  
tornando a casa, faccia un'altra via.  
 
Prepotenze? Che importa?... Innanzi agli occhi,  
ugualmente, danzando gli s'aduna  
una schiera di femmine coi fiocchi...  
Oh legatore, abbiamo una fortuna:  
la fantasia nessuno ce la toglie,  
nè il signor commissario nè la moglie! 
 
  
   
		§§§
  
36-IL TEOREMA DELL'AMORE
  
Un anziano professore di matematica s'inuagbisce 
di una sua allieva e se la sposa, dimenticando la legge... delle proporzioni.   
 
Figliuolo di papà, Carlo ha vent'anni 
è ancora alunno d'un liceo viennese  
(ma com'è avanti! Salvo disinganni,  
col genitore che non bada a spese,  
diverrà un giorno, quando sarà adulto,  
ingegnere, dottor, giureconsulto ... ).  
 
Intanto, il nostro Carlo s'innamora  
d'una compagna quanto mai carina,  
che si chiama Pavlùsa: è una signora  
diciannovenne, alquanto sbarazzina,  
moglie del professor di matematica  
ch'è cinquantenne, invece, ed ha la sciatica.  
 
Il professore spiega la tangente,  
parla del seno e dell'ipotenusa;  
ma per Carlo Zoltàn, naturalmente,  
quello che conta è il seno di Pavlùsa,  
mentre questa a memoria altro non manda  
che un postulato: «Al cuor non si comanda ».  
 
L'alunno, ch'è un ragazzo molto schietto,  
lo spiffera senz'altro al professore:  
« Il tre, voi dite, è un numero perfetto:  
in algebra però, non in amore,  
perché in amore si sta meglio in due,  
dato che il terzo è fatalmente un bue ».  
 
Il professor ne parla con la moglie  
e risolve il problema interessante:  
il tribunale la domanda accoglie,  
concedendo il divorzio sull'istante.  
E... come si voleva dimostrare,  
ora i due alunni saliran l'altare.  
 
Quel professore rigido e solenne  
s'era scordato delle... proporzioni:  
diciannovenne lei, lui cinquantenne,  
e l'ha sposata... Belle distrazioni!  
Un'illusione, l'ultima, è finita,  
cadendo dal trapezio della vita. 
 
  
   
		§§§
  
37-LA MOGLIE POETESSA
  
[Un marito scopre un diario, su cui la romantica moglie tracciava in versi i propri pensieri e le proprie vicende matrimoniali.]   
 
Donna Letizia va dal commissario:  
lo sposo l'ha percossa e l'ha contusa,  
divenuto ad un tratto autoritario,  
poiché scoprì gli sfoghi che alla Musa  
la romantica moglie, un po' delusa,  
confidava in un intimo diario.  
 
2 giugno (dell'altr'anno): «E' ancora notte,  
ma il giorno fra le stelle è già palese.  
Francesco è molto buono, è assai cortese;  
un po' grasso. Commercia in terrecotte,  
guadagna al giorno diecimila e rotte.  
Mi sposo il 22 di questo mese.»  
 
23 giugno: «Verità indiscussa,  
in lacrime maturano i sorrisi  
del mondo... I malinconici narcisi  
si curvan disperati, il sogno bussa  
piano al cuor mio con fremiti improvvisi...  
Niente da fare, ohimè! Francesco russa. »  
 
12 luglio: «E' triste, dopo tutto,  
non essere vicina a un dolce cuore,  
come alla terra è pur vicino il fiore;  
E scrivo versi senza alcun costrutto,  
mentre sogno una favola d'amore...  
Francesco si fa sempre un po' più brutto.»  
 
18 agosto: «Il giorno è quasi chiaro,  
benché una stella ancor nel cielo splenda.  
I frutti si comprimono a vicenda  
negli orti umidi e freschi... Il cuore è amaro,  
come chi più non speri e non attenda.  
Francesco si fa sempre un po' più avaro.»  
 
Aprile (di quest'anno), addì 18:  
« Leopardi è bello, non ti stanca mai.  
Ma questa notte sono strana assai,  
mentre il mio cuore dall'angoscia è rotto:  
forse perché fioriscono i rosai...  
Francesco ronfa come un ottentotto.»  
 
Adesso è intervenuto il commissario,  
appianando il litigio un po' grottesco:  
il marito panciuto e sedentario  
dormirà meno... In quanto a lei: «Francesco  
- stanotte scriverà sul suo diario -  
è diventato pure un po' manesco. » 
 
  
   
		§§§
  
38-DISOCCUPATI...
  
[Circa 40.000 persone, munite di certificati falsi, 
percepivano a Roma abusivamente il sussidio di disoccupazione.]   
 
A Roma, invece d'intristir nell'ozio,  
quarantamila e più disoccupati  
eran, oltre che stabili impiegati  
in qualche industria, in questo o in quel negozio,  
anche occupati... ad imbrogliar l'erario,  
arrotondando il labile salario.  
 
Con false carte fabbricate in serie,  
ormai da circa un anno erano iscritti  
fra quelli che accampavano diritti  
all'offa dello stato (oh Dio, miserie,  
briciole, si capisce: in ogni modo,  
son tempi, questi, in cui tutto fa brodo).  
 
Si tratta, adesso, di arrestarli in massa;  
ma la Questura dove li sistema?  
Credete che sia facile il problema  
e poco ingarbugliata la matassa?  
Sono, signori miei, quarantamila:  
provate a immaginarli messi in fila...  
 
San Vittore, non so, Regina Coeli  
ed altri... alberghi destinati ai ladri,  
furono fatti in tempi più leggiadri,  
quando Mercurio aveva i suoi fedeli,  
tra grandi, medi e piccoli predoni,  
che ancor non si contavano a legioni.  
 
Miti e felici età, quando un panino  
ed una zuppa non costavan niente.  
Nutrite adesso tutta questa gente!  
(E va trattata, in carcere, a puntino,  
o è pronta anche lì dentro a scioperare...)  
Per me, darle il sussidio è già un affare.  
 
No, no, credete pure, è un bel fastidio;  
meglio piantarla lì, con un rimprovero:  
« Il governo, ragazzi, è così povero,  
e voi che gli sbafate anche il sussidio!  
Non fatelo mai più per l'avvenire;  
e il vostro grido sia - Ricostruire! -»  
 
Il male è che il bilancio va in malora;  
ma qualche benpensante ha commentato:  
« Sarebbe giusto, in fondo, che lo stato  
desse il sussidio pure a chi lavora,  
visto che lo stipendio è così scarso,  
che dopo cinque giorni è già scomparso ».  
 
Ed ha concluso: «Via, far questo inferno  
per poche centinaia di milioni,  
da alcuni miserabili straccioni  
sottratti senza scrupolo al governo!  
Per una volta tanto - è la morale  
se il derubato è lui, niente di male ».
 
  
   
		§§§
  
39-PENULTIME NOTIZIE
  
Mariti per forza  
 
Sotterrato il fascismo, hanno abolito  
le norme relative al celibato.  
Immagino vi sia più d'un marito  
che inconsolabilmente avrà esclamato:  
«Hanno tolto la legge, ma la moglie,  
mi dite, amici miei, chi me la toglie? »  
 
Studi e ricerche  
 
Un professor di scienze comparate,  
a Mosca, va da tempo sostenendo  
che le correnti d'aria, utilizzate,  
farebbero miracoli. Comprendo:  
con una... polmonite intelligente,  
si metterebbe a posto un continente!  
 
Celebrazioni  
 
Il quattro ottobre è stato celebrato  
il dì della bontà verso le bestie:  
frate Francesco, mite e delicato,  
esortò l'uomo a non dar lor molestie.  
Avremo in un fatidico domani  
il dì della bontà verso gli umani?  
 
Mondo moderno  
 
Leggiamo che in un'asta parigina,  
che richiamò di medici un raduno,  
furon venduti più d'una ventina  
di teschi umani a mille franchi l'uno.  
Signori, al tempo d'oggi - è positivo _  
l'uomo val più da morto che da vivo!  
 
Romanzieri  
 
Un referendum nord-americano  
c'informa che su dieci romanzieri  
nove scrivon la notte a tutto spiano,  
mentre di giorno dormon volentieri.  
Speriamo in un sonnifero coi fiocchi,  
ch'anche di notte chiuda loro gli occhi... 
 
Vecchie opere  
 
Abbiamo letto, con un senso strano  
d'indifferenza e di malinconia,  
che dal ridotto esercito italiano  
sarà radiata la «Cavalleria ».  
La salutiamo coi più cari abbracci,  
sperando che non restino i... « Pagliacci »,  
 
Fortune  
 
A Milano un signor scopre ch'è becco,  
in modo affatto nuovo e interessante,  
poiché sua moglie vince un terno secco  
giocato in società col proprio amante.  
Egli ha chiesto il divorzio e c'è riuscito:  
ha vinto un terno secco anche il marito!  
 
Ladri allo Zoo  
 
Nello Zoo milanese un malvivente  
ha rubato due anitre pregiate.  
Invitato a scolparsi da un agente  
che l'ha sorpreso: «E che, pretendevate  
- avrà risposto il furbo lestofante   
che rubassi un leone o un elefante? »  
 
« Guida dell'inferno»  
 
Muore a Chicago, ormai dimenticato,  
un Dante più prosaico e più moderno,  
che cinquant'anni fa scrisse un trattato  
dove illustrò le pene dell'inferno;  
un inferno che provoca il sorriso:  
rispetto al mondo d'oggi è un paradiso!  
 
Ladri  
 
In un locale pubblico, a Torino,  
un novantenne ancor abile e scaltro,  
sorpreso a derubare un borsellino,  
dice che il furto è un vizio come un altro.  
Simpatico, però (c'è chi lo loda):  
a novant'anni segue ancor la moda!  
 
Esecutori testamentari  
 
Un mendicante lascia, in California,  
ventiduemila dollari al suo cane,  
che non può manco prendersi una sbornia,  
a somiglianza delle genti umane.  
Ma gli hanno messo accanto un assistente,  
che si sbornierà lui, naturalmente... 
 
Rose e spine  
 
Dopo accurati studi, un paziente  
floricultore delle Filippine  
è riuscito a creare di recente  
una pianta di rose senza spine,  
mentre teste europee meno ingegnose  
ci dànno molte spine e niente rose.  
 
L'esempio dell'uomo  
 
Nello Zoo di Milano una bertuccia  
sfila un anello d'oro a una signora,  
mentre questa le porge qualche buccia  
che l'ingrato quadrumane divora.  
Ingorda e ingrata: ormai non è più scampo,  
la scimmia imita l'uomo in ogni campo.  
 
Pericoli tn vista  
 
Le auto dei dottori avran tra poco  
- così si afferma - un simbolo speciale  
e potran, come i vigili del fuoco,  
passare senza attendere il segnale.  
Morale: non per essere malèdici,  
aumenteran le vittime dei medici... 
 
Il latte  
 
A SamsÖ un grosso incendio è stato spento  
con circa cento ettolitri di latte:  
qualche lattaio ne sarà contento,  
perché questa notizia, a cose fatte,  
in lui ribadirà l'idea speciosa  
che il latte e l'acqua son la stessa cosa.  
 
Cure per corrispondenza  
 
C'è in Argentina un medico che cura  
i suoi clienti per corrispondenza.  
Ma come? In questi tempi di ventura,  
con tanti ordigni che inventò la scienza,  
non v'eran già sistemi in abbondanza  
per ammazzare il prossimo a distanza?  
 
Brevetti  
 
Un ingegnere svizzero brevetta  
la « serratura lampo» pei cerini,  
che, chiusi a chiave in una scatoletta,  
non saranno accessibili ai bambini.  
Ed una serratura al portafogli,  
in modo che non l'aprano le mogli? 
 
Statistiche  
 
Secondo una statisnca olandese,  
dovuta a un ente d'assicurazione,  
i coniugati, almeno in quel paese,  
vivon più degli scapoli. Benone!  
Dopo questo, mia moglie, inorgoglita,  
si crede un elisir di lunga vita.  
 
Processi  
 
Strani commerci! In base a nuovi dati,  
la Russia esporta negli Stati Uniti  
mille scheletri al mese, utilizzati  
per processi scientifici più arditi.  
Povero russo: prima (è uno sconforto)  
lo processan da vivo e poi da morto!  
 
Usi e costumi  
 
Presso alcune tribù di Terranova,  
contrariamente all'etica europea,  
l'uomo ha il diritto di tenere in prova  
la moglie per due giorni: ottima idea!  
Perché la legge, raddolcendo il giogo,  
non è uguale per tutti e in ogni luogo? 
 
Vedovo undici volte  
 
Nei pressi di Milazzo, un moribondo,  
con sulle spalle un secolo sonato,  
nel chiuder gli occhi: «Non rimpiango  
                            il mondo,  
vi si fan troppe chiacchiere » ha esclamato.  
Ci credo! Aveva avuto esattamente  
dodici mogli (l'ultima è vivente).  
 
Archeologia  
 
In una tomba, a Memphis, un acuto  
egittologo inglese ha decifrato  
un'iscrizione, ma non ha voluto  
dire a nessuno il suo significato.  
Qui c'è una sola ipotesi che regge:  
c'era scritto così - fesso chi legge?  
 
Conferenze  
 
E' stata inaugurata, col concorso  
di ventidue Repubbliche, all'Avana,  
(e per ogni Repubblica un discorso)  
la conferenza panamericana.  
Il luogo è scelto bene e ne desumo  
che tutto mancherà, tranne che... il fumo. 
 
Con quel nome!  
 
Agrippina De Angelis, romana,  
dovendo partorire di lì a poco,  
aveva una trovata un po' balzana:  
telefonava ai vigili del fuoco!...  
Temeva anch'essa, a quel che si suppone,  
di dare al mondo un piccolo Nerone.  
 
Uomini e bestie  
 
Secondo una statistica, che studia  
la nostra attività universitaria,  
la nuova gioventù vieppiù ripudia  
la bella facoltà veterinaria.  
Credete a me, le bestie, compiaciute,  
si diranno così: «Tutta salute ».  
 
Usi e costumi  
 
In Cina, per un uso venerando,  
quando muore uno scapolo, i parenti  
scelgono una defunta, celebrando  
il matrimonio come tra viventi.  
Far sposare due morti: è una trovata!  
La pace familiare è assicurata. 
 
La moglie ideale  
 
Muta da dodici anni, una donzella  
- c'informan da una calabra borgata -  
ha ritrovato a un tratto la favella  
il giorno stesso in cui s'è maritata.  
Lo sposo si domanda impensierito:  
« Non era un trucco per trovar marito?... »  
 
L'età del mondo  
 
In base a certi calcoli recenti,  
il mondo avrebbe due miliardi d'anni:  
certo, di fronte agli esseri viventi,  
ai più longevi pieni di malanni,  
ha una gran bella età; ma non c'è indizio  
che si decida a mettere giudizio.  
 
Recidivo  
 
Sei mesi di galera a un malvivente  
perché ha rubato un pollo, a Pordenone;  
lo stesso furto, l'anno precedente,  
gli era costato un mese di prigione.  
Avrà detto perciò, con voce amara:  
« La vita si fa sempre un po' più cara! » 
 
Poeti ladri  
 
A Desio, un malfattor ruba, una notte,  
mezzo milione e poi - bella ironia!  
tranquillamente il derubato sfotte,  
lasciandogli un saluto in poesia.  
Io faccio versi, sì, ma, meno astuto  
vi rubo tutt'al più qualche minuto... 
 
  
   
		§§§
  
SONB DOPOGUERRA
  
40-SNOB MENEGHINO  
 
Ad ogni guerra, perduta o vinta,  
segue una moda più o meno spinta.  
Nel '19, quando Parigi,  
allora al colmo dei suoi prodigi,  
lanciò la moda della garçonne,  
fece insanire tutte le donne.  
Che tempi quelli per le ragazze!  
Furoreggiavan le idee più pazze.  
La donna, stanca di far la schiava,  
a tredici anni si emancipava:  
giacca e cravatta, capo scoperto,  
capelli corti, quasi all'Umberto;  
una borsetta di pelle fina,  
con dentro un grammo di cocaina,  
e nel cervello, per sua sciagura,  
nemmeno un grammo di segatura.  
Tra maschi e femmine, in apparenza,  
nessuna traccia di differenza,  
benché restasse sempre integrale  
la differenza fondamentale,  
che sembra niente, ma che ben tosto  
rimise quasi le cose a posto.  
La moda, invece, ch'oggi imperversa,  
è di natura molto diversa.  
Dei suoi seguaci più accreditati,  
fra vitaioli spregiudicati  
e « gagarelle » più o meno sciocche,  
nell'ora sacra del Faivocloccbe,  
trovi in Via Monte Napoleone  
un campionario che fa impressione.  
è, nella vecchia plebea Milano,  
il buen retiro del baciamano;  
è il profumato tempio dell'ozio,  
dove non trovi solo il negozio  
o il caffeuccio piatto e volgare,  
ma un angoletto crepuscolare,  
dove, tra inchini, profumi e vezzi,  
son profumati più ancora i prezzi.  
 
 
è lì che trovi, spirituale,  
fine, moderna, la pia vestale  
dell'eleganza, di quel buon gusto  
che ormai dilegua da un mondo frusto.  
è molto ricca la signorina:  
mamma ha venduto tanta farina.  
Non bada a spese madamigella:  
babbo vendeva la mortadella,  
ed ha rischiato fin la galera  
quando imperava la borsa nera!  
Come si chiama? Gina? Marianna?...  
No, ve ne prego! Freme, si danna,  
se le affibbiate siffatti nomi:  
lei non demorde da certi assiomi,  
per cui la vita, senza L'« i » greca  
(che in altre lingue tanto si spreca!),  
o per lo meno senza l'« e » muta,  
non val la pena d'esser vissuta.  
Giunta alla soglia dei quindici anni,  
perciò, si chiama Lilly, Lully, Anny,  
Mary, a seconda dei suoi capricci:  
se tutto manca, si chiama Cicci.  
Le americane: lo so, lo so,  
per imitarle fa quel che può.  
Compra famose riviste esotiche  
e, quando sfoga le smanie erotiche,  
geme « my darling »; c'è più decoro  
che in quei nostrani « caro » o « tesoro ».  
Carezzerebbe l'idea chimerica  
di trasferirsi nel Nord America:  
in base ai film ch'ella ha ammirato,  
quello è un paese spregiudicato,  
dove la donna sposa, fa il corno  
e poi divorzia, tutto in un giorno.  
Se avesse avuto più iniziativa,  
avrebbe forse fatto la diva;  
qui c'è un ambiente più provinciale,  
che, in certo senso, le tarpa l'ale...  
Sputa pensieri triti e ritriti  
sui vari Freud mal digeriti;  
parla di Sartre, di Salacrou  
(« mi piace un pozzo », «non mi va giù »):  
non ha mai letto, naturalmente,  
neppure un rigo di quella gente,  
ma sa che anch'essi, col whisky and soda,  
sono dei nomi molto alla moda.  
E non ostante tanta cultura,  
quando si sente sola e sicura,  
legge i romanzi dell'Invernizio ,  
cambiando il nome sul frontespizio...  
 
		*** 
Vi ricordate di quel « gagà »  
che imperversava tanti anni fa?  
Era lo scemo senza un « luigi »  
che sospirava la sua "Pavigi";  
era il decoro del marciapiedi,  
che amoreggiava con una lady,  
era l'artista della stoccata,  
che redimeva la cicca usata,  
il cavaliere dell' erre moscia,  
l'eroe mancato della deboscia,  
senza speciali complicazioni  
oltre alla riga dei pantaloni.  
Rinvigorito dopo tre lustri  
da una panciata di film illustri,  
da ricchi sorsi di whisky and soda  
(una bevanda sempre alla moda)  
e da una nuova ricchezza-lampo,  
il « gagarone » del vecchio stampo  
s'è trasformato nel fatalone  
che va per Monte Napoleone.  
è un esponente del tempo nostro:  
no, poverino, niente Cagliostro,  
nè Casanova, nè Don Giovanni;  
è un imbecille sul fior degli anni,  
i cui problemi fondamentali  
sono i pullovers sensazionali,  
il bridge, il tennis, le corse, i cani  
(«son così "pveso" tutto domani »)  
e la sua « scatola»: la mille e cento  
(« racchia », ma in fondo non n'è scontento).  
 
 
Certo, è un ragazzo molto pulito:  
« il bagno è l'uomo» proclama e, uscito  
di casa, sente d'un fresco effluvio:  
egli è un assiduo del pediluvio.  
Per l'eleganza non bada a spese:  
porta un completo di stoffa inglese  
(stoffa che a Biella fu fabbricata,  
ma per inglese lui l'ha pagata).  
In una tasca dei pantaloni  
ha una manciata di bigliettoni  
e quando occorre, ligio all'usanza,  
li tira fuori con noncuranza,  
quasi confuso - vi fa capire -  
che non sian dollari, ma appena lire.  
Ha il bar in casa, dove agli amici  
- tutti più o meno ricchi e felici   
offre un cocktail, con cui sfidate  
tutti i veleni di Mitridate.  
Dopo ingerito quell'elisire,  
comincia l'"ovgia": sarebbe a dire,  
s'attacca un disco con un jazz negro,  
o brasiliano, triste od allegro,  
lo s'accompagna - du du du du   
sotto una luce violetta o blu,  
quindi, esauriti cinque o sei dischi,  
si beve un dito di falso whisky,  
s'esclama in coro: «"pevò", che vita! »  
e si va a letto: l'"ovgia" è finita.  
 
Non c'è mai caso che quel baggiano  
risponda al mite nome Gaetano;  
sul suo biglietto non c'è mai caso  
che porti scritto Rocco o Tommaso:  
sta pur sicuro che il signorino  
si chiama Bepo, si chiama Pino,  
si chiama Gege, si chiama Memo:  
innocuo, in fondo, ma tanto scemo!  
E se davvero veder lo vuoi  
«nel quinto cielo dei fasti suoi»,  
dove il suo genio più se la fa,  
è nelle sale del cinemà.  
Lì, favellando delle «riprese »,  
sfoggia i sei nomi del proprio inglese:  
sei nomi in tutto, ma s'è convinto  
che sa l'inglese quasi d'istinto  
e che fa parte di qull'élite  
che parla il gergo di Broadway Street.  
Trova ch'è buona la « dissolvenza »,  
che il film è fatto con diligenza;  
osserva pure ch'è indovinata  
e originale la « carrellata »,  
che per l'effetto dei « primi piani »  
vi sono solo gli "amevicani".  
Spesso a godersi va in un locale  
dei film esotici l'originale,  
senza il doppiaggio, che toglie il pregio,  
che sa di trucco, ch'è un sacrilegio:  
no, chi ha sentito la voce autentica  
di Rita Hayworth, non la dimentica,  
e in italiano com'è indigesta!  
«"Fovse" è la lingua che non si "pvesta"»...  
Questo il ritratto del « gagarone »  
che va per Monte Napoleone  
e al socialismo perdonerà,  
«"puvché" sia quello di Savagà ».
  
-- 
Nota: 
Le parole virgolettate 
sono pronunciate con l'erre moscia: 
usa la "v" al posto della "r" e quindi andrebbero scritte in corsivo.   
 
  
   
		§§§
  
41-LA CONTESSINA DELLA BORSA NERA
  
Frequenta i « night » in abito da sera,  
spigliata, ingioiellata, civettuola;  
studia il francese. è l'ultima figliuola  
della contessa della Borsa Nera.  
Tratta il denaro, specie la domenica,  
come il blocchetto della carta igienica.  
 
Un'intervista lampo. « Contessina,  
che è mai la vita? » «Un nulla, una sfogliata,  
è l'ombra d'una Camel delicata,  
è il profumo d'un fior (fior di farina),  
è una... tavola breve, un sogno. azzurro,  
con la dolcezza d'un biscotto al burro ».  
 
«E che cos'era, ditemi, contessa,  
otto o nov'anni fa, quando in quel forno  
guadagnavate dieci lire al giorno  
in qualità di semplice commessa?»  
«Oh, l'ombra di un'indigena, un fetore,  
una pagnotta intrisa di sudore».  
 
«è meglio adesso o prima? » « Che domande!  
Paragonar quel tempo senza tessere  
a questo dolce e placido benessere ...  
Sapete, amico mio, che siete grande?  
Paragonare una carretta ignobile  
- quella che anch'io tiravo - all'automobile!»  
 
«Avete l'automobile?» «Una sola?...  
Ma voi scherzate! » E aggiunse con disprezzo:  
«Con la miseria d'un milione e mezzo,  
una ce l'ha qualsiasi famigliola.  
E a Stresa abbiamo pure il motoscafo:  
verrete un giorno? Si capisce, a sbafo...»  
 
«Avete tanti ghei, dunque?» «Mio caro,  
sono finiti i tempi in cui nell'oro  
nuotavan solo i ladri; oggi è il lavoro  
che dà diritto al facile denaro.  
E Dio protegga ancor questa simpatica  
buona feconda Italia democratica!»  
 
«Perché? Voi lavorate, contessina?»  
«E come, amico mio! Detesto l'ozio:  
di giorno, mi trovate nel negozio...  
Vi serve, forse, un chilo di farina?»  
Sorridente ammiccò: «Caro signore,  
per voi toujours, e a prezzo di favore». 
 
  
   
		§§§
  
I BEAT
  
		
42-CAPELLONI  
 
I beat, a parer mio, non hanno torto:  
in nome del lavoro e del progresso,  
col cuore brullo e col pensiero morto,  
l'uomo rinunzia ad essere se stesso.  
 
Resta alla vita un unico conforto:  
una bella automobile, che spesso,  
usata per dovere o per diporto,  
...ci mena dritto all'ombra d'un cipresso.  
 
E tutti, ricchi o no, stupidi o scaltri,  
han su per giù gl'identici ideali,  
gli uni sOn sempre più simili agli altri... 
 
Ecco, però, che alcuni giovincelli  
si credono diversi, originali  
perché si fanno crescere i capelli  
 
		***
 
Son questi i cosiddetti capelloni  
che, per lo più figlioli di papà  
tra posatori e futili cialtroni,  
non han coi beat alcuna affinità.  
 
E dietro si trascinano a legioni  
vuoti ragazzi, ai quali, in realtà,  
lunghi capelli e strani pantaloni  
servon da sola originalità.  
 
In tal modo conciati, han tutta l'aria  
d'autentici «barboni », se cancelli  
a loro tinta rivoluzionaria.  
 
Mi diano ascolto: porgano la guancia  
al rasoio, alle forbici i capelli,  
la mente ad un lavaggio e... grazie, mancia!  
 
  
		§§§
  
43-RIBELLI  
 
La Produzione - la caratterrstica  
della potente industria americana   
è diventata ormai la nuova mistica  
che incanta il mondo e domina sovrana.  
 
La tradizione umana ed umanistica  
e, soprattutto, la persona umana,  
è tutta quanta roba anacronistica  
da gettare alle ortiche, insulsa e vana.  
 
Ed è una corsa inutile e cretina  
verso il sommo Benessere, che, salvo  
pochi ribelli, tutti oggi trascina.  
 
Senza lasciarmi crescere i capelli  
(e neppur lo potrei, perchè son calvo),  
sarei d'accordo anch'io con quei ribelli.  
 
		***
 
Strani ribelli, tuttavia: la sorte  
li danna all'impotenza e all'inazione;  
io non li sento strepitare - A morte! -  
contro i misfatti della Produzione;  
 
io non li vedo, in epica coorte,  
sia pur cantando, o urlando una canzone,  
marciare contro questa roccaforte  
del malcostume e della corruzione.  
 
Non marcia il beat indocile: il nemico,  
l'ha inventato il « matusa », egli ribatte;  
egli non vuole guerre. Ond'io gli dico:  
 
il giovane ribelle vietnamita  
vuole forse la guerra? Eppur si batte,  
anche se in guerra lascerà la vita. 
 
  
   
		§§§
  
44-COMIZI «BEAT»
  
Mentre la folla traffica e s'affanna,  
accalappiata dal «sistema» infame,  
sfilano i beat: un pittoresco sciame,  
che quel sistema giudica e condanna.  
 
Strani « barboni », ancor di primo pelo,  
nanchè « barbine » in abito maschile,  
sfilano in lunghe ed incomposte file,  
gridando contro un mondo senza cielo,  
 
quel mondo contro il quale si ribella  
la nuova gioventù, più di un'accusa  
lanciando contro noi: contro i « matusa »,  
come ci chiama il beat in sua favella.  
 
Noi possiamo ignorarli, o, un po' seccati,  
dare a ognuno di lor del vagabondo,  
ma loro posson dirci: «Questo mondo,  
a ridurlo così, voi siete stati».  
 
Possiamo loro consigliare un sarto  
o un parrucchiere, in tono d'ironia;  
loro possono direi, tuttavia:  
«Siete voi stati ad inventar l'infarto;  
 
l'ansia, l'angoscia, il culto del lavoro,  
voi foste ad inventarli: è questo culto  
che vi divora come un male occulto,  
senza rimedio», posson dirci loro.  
 
Noi gli possiamo dar dei perdigiorno,  
possiamo pure con solenne foga  
rimproverargli l'uso della droga,  
ma loro posson dirci, a nostro scorno:  
 
«Non è il mondo di Dio, questo, che inquina  
l'acqua dei fiumi, e l'anima, e il pensiero;  
ed un mondo più giusto, il mondo vero,  
per questo lo chiediamo all'eroina ».  
 
E sarà sempre un mondo senza cielo,  
questo che noi gli demmo e non gli garba,  
fin quando tra i capelli o nella barba  
non scopriranno il primo bianco pelo:  
 
e allora, dopo un ultimo comizio,  
s'accoderanno al mondo dei « matusa »  
e nell'empio sistema, in patria o in USA,  
entreran dalla porta di servizio. 
 
  
   
		§§§
  
45-SOLO I PAZZI CONTANO
  
Spregiano quella ignobile genia  
di borghesi infrolliti,  
spiritualmente morti e seppelliti,  
che han molta stima della gerarchia,  
che adoperan la logica  
e credono tuttora alla morale,  
capaci, quando vanno in automobile,  
di rispettare il codice penale.  
E solo i pazzi contano:  
solo i pazzi di vivere, d'amare,  
d'annegar nella musica e nel sole.  
I pazzi, soprattutto, di bruciare,  
senza un perché disposti al sacrificio  
supremo, di bruciare  
con l'anima ribelle,  
simili a gialli fuochi d'artificio  
che esplodan come ragni tra le stelle. 
 
  
   
		§§§
  
46-GENERAZIONE «BEAT»
  
Disprezzan la morale e son convinti  
ch'è bello far l'amore in pieno sole,  
sfogando i propri umori e i propri istinti  
liberamente, come più si vuole. 
 
In una lotta senza prospettive,  
senza il miraggio d'una ricompensa,  
viver non sanno ed odiano chi vive,  
non san pensare ed odiano chi pensa. 
 
E sono suppergiù della partita  
quei giovinastri che, mancati eroi,  
s'accaniscono poi contro la vita,  
trasformandosi, a Londra, in teddy boy. 
 
Il fenomeno «beat», invece, assume  
qui tutta un'aria di provincialismo:  
un banale episodio di costume,  
che sta sfociando ormai nell'umorismo. 
 
Vedi a Milano andare avanti e indietro  
gruppi di capelloni per la via,  
o in alcune stazioni della « Metro »,  
sotto lo sguardo della polizia.  
 
A Roma, nei magnifici tramonti,  
si aggiran tra le ceste dei fiorai  
a decorar la Trinità dei Monti  
e, qualche volta, a combinar dei guai;  
 
sicché su quelle scale prestigiose,  
così care alle turbe cittadine,  
se non mancan di solito le rose,  
non mancano, però, neppur... le spine. 
 
  
   
		§§§
  
47-DEGENERAZIONE «BEAT»
  
Stanno per ore ed ore,  
muti e drogati, ad ascoltare il jazz,  
nel beato torpore  
d'uno splendido nulla sprofondati.  
O a gruppi per la via, tacendo in coro,  
vanno, coi lucidi occhi imbambolati,  
senza nessuna mèta:  
vittime della noia,  
procedon verso il nulla che li ingoia,  
chi immaginando d'essere un poeta  
(poiché la droga compie il suo lavoro),  
chi immaginando d'essere un messia.  
E vanno per la via,  
tra una folla distratta o incuriosita,  
cercando di colmare  
questo vuoto sonoro,  
in cui s'è trasformata oggi la vita.  
Vanno, guidati da nessuna idea,  
spersa la mente in un sognante esiglio,  
convinti d'innalzare ad epopea  
la noia e lo sbadiglio. 
 
  
   
		§§§
  
48-IL JAZZ 
  
Amano il jazz (e a volte l'amo anch'io):  
l'amano perch'è libero,  
perché nasce dall'anima,  
forse dettato all'anima da Dio.  
L'amano perch'è un'arte primitiva,  
viva e vitale, semplice e spontanea,  
ed é appunto per questo - arte istintiva,  
brillante, estemporanea -  
nulla concede alla banalità.  
Amano il jazz e l'amano  
perch'è la loro musica, la musica  
dell'improvvisazione  
e della libertà.  
 
E a volte l'amo anch'io; ma non per questo  
ascolto del sassofono il lamento  
con quel raccoglimento  
col quale si seguivano i messaggi  
misteriosi degli anacoreti,  
o le parole e i gesti dei profeti  
e degli antichi saggi.  
Lo ascolto, non pensando che sia frutto  
di un'invenzione sovrannaturale  
e senza andare in trance. In generale,  
mi diverto (o m'annoio) e questo è tutto. 
 
  
   
		§§§
  
49-POETI «BEAT»
  
Ci sono anche poeti, a quanto pare,  
tra quei giovani beat, e non per burla:  
autentici poeti;  
e sembra che li asseti  
un desiderio ardente di creare,  
d'esaltarsi nel canto.  
Ma afferman che soltanto  
quello che dentro gli urge e grida ed urla,  
ciò che esplode nell'anima  
con la violenza di un'inondazione,  
soltanto quello merita  
una lirica, un'ode, una canzone.  
Ma occorre, soprattutto,  
sacrificare a questo impeto schietto  
che gli rugge nel petto,  
sacrificare a questa forza enfatica  
che li divora, tutto ciò ch'è inutile,  
falso, accessorio, futile,  
comprese... la sintassi e la grammatica. 
 
  
   
		§§§
  
50-MONDO «BEAT»
  
Vogliono un nuovo assetto ad ogni costo,  
vogliono liquidar la paccottiglia  
di questo vecchio mondo che sbadiglia,  
oppresso dal sistema che gli è imposto. 
 
E voi, gentuccia di parere opposto,  
mogli perbene, padri di famiglia,  
nel progettato nuovo parapiglia,  
voi non sperate più di trovar posto.  
 
Saranno i beat a far piazza pulita  
d'ogni antica viltà, d'ogni impostura  
e a rinnovar le leggi della vita.  
 
Io ci starei, ma dopo... chi ci salva?  
Che differenza fra la dittatura  
dei capelloni o della gente calva? 
 
  
   
		§§§
  
51-IL PECCATO ORIGINALE
  
La stravagante gioventù di adesso,  
per molti versi assurda ed infelice,  
è ossessionata, a quanto ci si dice,  
dalla viva pungente ansia del sesso.  
Attratta dall'istinto della carne,  
essa apprezza il peccato originale,  
convinta, tuttavia, di poter farne  
qualcosa di più nuovo e di speciale.  
Ma perché poi, - mi chiedo un po' perplesso -  
se originale è già di per se stesso?... 
 
  
   
		§§§
  
52-PROGRAMMA «BEAT»
  
Devono andare, andare e poi daccapo  
andare, andare, andare:  
questo è il programma « beat »,  
sia di quelli che van per Montenapo,  
sia di quelli che van per Broadway Street.  
Vanno con gli occhi lucidi ed assorti  
di chi con l'eroina si trastulla:  
andare, andare, andare...  
Forse perciò son sempre stanchi morti,  
pur senza mai far nulla.  
 
Andare, dunque: e dopo?...  
Il pubblico si chiede,  
come noi ci chiediamo:  
è una corsa allo scopo  
di trovare una fede  
al di là dei confini  
di questo gretto mondo in cui viviamo?  
 
No, non è questo. E allora?  
Provate a domandarglielo voi stessi:  
«Vi basta calpestare il patrio suolo,  
forse, soltanto per sgranchir le gambe,  
o per correre dietro  
malate fantasie, stupide e strambe? »  
Restano muti, ermetici, perplessi,  
mentre forse in cuor loro  
vi dan dei rompiscatole ausiliari;  
o vi rispondon solo  
con un lontano ironico sorriso...  
Forse si credon rivoluzionari,  
perché hanno smesso di lavarsi il viso. 
 
  
   
		§§§
  
53-I BEAT E IL LAVORO
  
Non amano il lavoro,  
in una società schiava dell'oro,  
dei suoi magnati e d'altri falsi numi,  
che ci condanna a una fatica insana,  
a costo di veder l'anima umana  
andarsene in frantumi.  
 
Non amano il lavoro,  
anche se sono stretti dal bisogno  
e crepan di salute;  
ma vorrebbero vivere (che sogno!),  
come i fratelli beat americani,  
fra negri, vagabondi e prostitute.  
Certo, i negri da noi sono un po' scarsi,  
si contan sulle dita delle mani,  
e tuttavia non c'è da scoraggiarsi,  
che, in quanto alle altre due categorie,  
ce n'è per tutti, senza economie.  
Ma privi di risorse (e non può averne  
chi al carro del « sistema» non si aggioga  
e non si piega a certe leggi eterne),  
o, per lo meno, a corto di risorse,  
debbono farne corse e acrobazie,  
per procurarsi l'agognata droga,  
che costa tanto cara, ma surroga  
tutti i pensieri e tutte le idiozie.  
 
Non amano il lavoro e, in fondo, anch'io  
la penso come loro.  
Eppure, a parer mio,  
dover correr su e giù sera e mattina  
per trovar l'eroina,  
andare in giro, logorando i muscoli,  
per la locale metropolitana  
a vendere gli opuscoli  
d'una loro protesta astrusa e vana,  
per suscitare il pubblico interesse,  
ed avere a che far con la P.S.,  
ed alla fantasia non dar riposo...  
amici miei, lasciate ch'io vi dica  
che fare il beat è un'improba fatica  
e che il lavoro è assai meno gravoso. 
 
  
   
		§§§
  
54-I BEAT E LA DROGA
  
Solo la droga è la sostanza viva,  
pur se i tempi son duri e i soldi scarsi,  
che permette ai ribelli di sottrarsi  
a questa opaca morte collettiva.  
 
E con le sue mirabili virtù,  
col suo potere magico, è la droga  
che in modo insuperabile surròga  
gli spettacoli ch'offre la TV;  
 
spettacoli modesti, di dozzina,  
dinanzi alle visioni, al vulgo ignote,  
che ci può offrire un grammo di peyote,  
o un solo centigrammo d'eroina: 
 
il farmaco più puro che ci sia  
per questa gioventù crepuscolare,  
che a buon diritto vuole riposare  
dalla stanchezza della fantasia  
 
(nè della fantasia semplicemente,  
perché tra i loro compiti, e son tanti, 
quello di chieder l'obolo ai passanti  
è una fatica non indifferente).  
E giustamente ognuno d'essi chiede  
all'eroina o alla marijuana 
la sua dose d'oblio quotidiana,  
o l'illusione d'una nuova fede: 
 
contro una società ch'oggi ha creato  
un abisso tra l'uomo ed il suo io,  
procura di stordirsi in quell'oblio,  
in un torpore placido e beato.  
 
Benché trasposti in pieno Novecento,  
noi di costumi e d'animo vetusti,  
non riusciamo a capire quali gusti  
possan trovarsi in quello stordimento;  
 
ma noi vivemmo in favolose età,  
di cui riusciamo appena a sovvenirci,  
strane, retrive età, quando a stordirci  
eran... gli scapaccioni di papà. 
 
  
   
		§§§
  
55-IL MUTISMO
  
Sono i seguaci del linguaggio «bop »,  
specie di nuovo lessico mondiale,  
scarnificato all'osso: l'essenziale  
per girare la terra in autostop.  
 
Il linguaggio del « bop », a quanto ho udito,  
da tempo entrato nella loro prassi,  
dato che esclude logica e sintassi,  
è, fra tutti, dai beat il preferito.  
 
Ma sostengono questi, in generale,  
che d'un linguaggio non c'è più bisogno:  
sopprimer la parola è il loro sogno,  
la parola, ch'è fonte d'ogni male.  
 
Essere freddi, distaccati, muti  
è un loro requisito necessario:  
distruggere gli affetti (che al contrario  
son tanto cari, invece, ai linguacciuti).  
 
Ed il linguaggio « bop » è un buon avvio  
per arrivare al termine agognato:  
l'annunzio del silenzio beneamato,  
i pascoli felici dell'oblio...  
 
Ma abolir la parola, a conti fatti,  
io penso che per noi sarebbe un terno,  
visto che la parola, il Padre Eterno  
l'ha data pure ai pappagalli e ai matti. 
 
  
   
		§§§
  
56-SUICIDIO
  
E parlo giusto a te, gente minuta,  
brava ed onesta, semplice e banale,  
che ti appassioni ancora (oh sprovveduta!)  
a un lavoro, a una donna, a un ideale.  
 
Se ancora non lo sai, l'ora è venuta  
d'anticiparti il dì del funerale:  
spàrati un colpo, bevi la cicuta,  
gèttati dalla tromba delle scale!  
 
Per te non c'è più posto in questo mondo:  
il beat ha espresso ormai nei tuoi riguardi  
il suo disprezzo esplicito e profondo. 
 
Come?... Non vuoi saperne di suicidio?  
Sei convinto anche tu che, presto o tardi,  
sarà lui prima a toglierti il fastidio? 
 
  
   
		§§§
  
57-LA NUOVA CIVILTÀ
  
Trovatomi presente ad un consesso  
di beat appassionati e deliranti,  
ho sentito, da molti degli astanti,  
esaltar l'anti-arte, l'anti-sesso,  
nonché l'anti-virtù, l'anti-progresso  
(nutriti applausi) e numerosi altri « anti ».  
 
Infine, scoppiò un grido travolgente:  
- Largo alla nuova civiltà che avanza!  
E anch'io m'assocerei con esultanza,  
se non fosse il timore deprimente  
di trovarmi a gridar più esattamente:  
- Largo alla foia e largo all'ignoranza! 
 
  
   
		§§§
  
58-TRAMONTO DEI BEAT
  
Peccato! Dall'idea d'una rivolta  
d'una protesta viva ed animata  
contro una società putrida e stolta,  
contro una civiltà sconclusionata  
 
contro la vanità d'un ideale  
basato sulla fiaba del progresso,  
contro l'ipocrisia sacerdotale  
sui misteri dell'anima e del sesso 
 
 
contro la falsità che ci governa  
e ad un dovere inutile c'inchioda, 
questa rivoluzione antimoderna  
è diventata un abito, una moda: 
  
priva di forza e d'impeto plebeo,  
non più sorretta da virtù spontanee,  
sta per finir, purtroppo, nel museo  
delle curiosità contemporanee. <
 
  
   
		§§§
  
59-LA MALEDIZIONE ATOMICA
  
Non posso condannarvi, capelloni,  
(a parte quelle zazzere, s'intende,  
e quelle barbe e quelle giacche orrende  
e il gusto delle toppe ai pantaloni),  
 
non vi condanno: il rabberciato mondo  
che vi han lasciato quei cervelli fini  
dei papà vostri (i cari birichini),  
più che una sporca gabbia, è un cesso immondo!  
  
Ricordo a molti benpensanti amici  
che, nonostante guerre, dittature  
e tutto un sindacato di sciagure,  
noi fummo, in fondo, giovani felici;  
 
l'odio accecava gli uomini, la morte  
era sempre in agguato, inferocita,  
ma la certezza eterna della vita  
ci sorreggeva ancora, assai più forte.  
 
Oggi è diverso: nulla più è sicuro  
intorno a noi, da quando la spietata  
aledizione atomica ha mutata  
la faccia della vita e del futuro.  
 
E sulla terra un formicaio immenso  
traffica, in una nuvola di fumo,  
felice dei suoi beni di consumo,  
senza avvertire un immanente senso  
 
di follia collettiva, che c'induce  
ad affrettar lo scoppio d'una bomba  
che al vecchio mondo scaverà la tomba  
al lampo d'una bianca assurda luce. 
 
  
   
		§§§
  
60-I VERI COLPEVOLI
  
Nacquero nell'orrore delle stragi  
scatenate dai grandi della Terra,  
in quegli anni malvagi  
in cui la civiltà  
poteva annoverar tra i suoi più insigni  
monumenti di gloria i desolati  
cimiteri di guerra  
e i campi di sterminio.  
Se pur non li ricordano  
- scomparse poi le orribili rovine   
han sentito parlar dei nuovi Vandali  
ch'ebbero mezzo mondo in lor dominio,  
ed hanno poi vissuto  
nutrendosi di scandali a catena.  
Forse, bambini o adolescenti appena,  
avevano saputo  
anche per chi papà faceva il tifo:  
pel [fùhrer o pel duce onnipotente...  
E fin da allora, irreparabilmente,  
capirono che il mondo era uno schifo.  
 
E noi, sprezzanti, li rimproveriamo  
per certi loro gesti di rivolta,  
pei capelli prolissi e spettinati,  
o per la barba incolta;  
li disprezziamo, noi  
che facemmo la guerra  
e ci credemmo eroi,  
che tollerammo, apatici e supini,  
Hitler e Mussolini  
(peccato che sian morti:  
eh quelli sì che avevano  
la barba rasa ed i capelli corti!). 
 
  
   
		§§§
  
61- DONNE MODERNE
  
Mi tocca pur rimpiangere, sorelle,  
i buoni tempi delle nostre nonne,  
quando eran, queste, ancor giovani e belle,  
ma soprattutto ancora erano donne.  
 
E senza alcuna fisima ribelle  
nascosta fra le pieghe delle gonne  
non uscivano nude (un po' di pelle  
celata appena dalle minigonne).  
 
Ma il fatto lamentevole è che tutte  
la nuova moda intendono seguire,  
anche le donne più spiacenti e brutte,  
 
dal manico di scopa a chi, malferma  
sulle adipose zampe, ti fa dire:  
« Quella non è una donna, è un pachiderma ». 
 
  
   
		§§§
  
62 MUSICA YÈ YÈ
  
La teoria di Darwin, molto ardita,  
più d'un secolo fa,  
contraddicendo una credenza avita,  
sembrò scandalizzar l'umanità.  
E molta gente, allor, non ci credeva.  
Ma adesso è differente:  
infatti, quando danzano, i presunti  
figli d'Adamo ed Eva  
fanno esclamare subito - è evidente!  
Nel veder petto gambe e deretano  
dimenarsi così  
nei gorghi della musica yè yè,  
si conferma il concetto darwiniano  
(senza offender le scimmie, va da sè). 
 
  
   
		§§§
  
63-LE VOGLIAMO NUDE
  
Sono arrivato fino all'età mia,  
in tempo per veder le minigonne,  
che sono, in questa nostra epoca insonne,  
l'ultimo lembo dell'ipocrisia.  
 
 
Aboliamo anche quelle! Ormai le donne  
non han più freno e presto per la via  
(ciò che un tempo sembrava una follia)  
vedremo nude veneri e madonne.  
 
Alcuni benpensanti vanno in bestia  
e affermano indignati che bisogna  
far ritorno al pudore e alla modestia,  
 
mentr'io sostengo con la maggioranza  
che basta, per coprire la vergogna,  
una foglia di fico: e ce ne avanza.  
  
		FINE 
 
 
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 Un ringraziamento di cuore al Signor Giuseppe Amoruso, residente in Cirò Marina. Grazie alla sua "testardaggine" ed al suo certosino lavoro, di ricerca e digitalizzazione, è stato possibile divulgare questa opera ormai introvabile.
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