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La parola a Alberto Cavaliere
Alberto Cavaliere (1897-1967)

Prefazione



Avevo accolto con viva simpatia la proposta fattami alcuni mesi or sono dagli amici delle Edizioni Avanti! di mettere insieme una raccolta di mie poesie. Ma quando mi accinsi a scegliere le poesie da pubblicare, e a sceglierle in numero modesto cosi che occupassero solo un centinaio di pagine, mi misi le mani nei superstiti capelli... Ho cas­setti rigurgitanti di versi - soltanto cassetti e non bauli, per­ché tonnellate di poesie sono andate disperse durante le mie peregrinazioni, e di altre hanno fatto giustizia i bombarda­menti.

Poesie per sole cento pagine, dunque. Rinunziai a con­durre personalmente a termine l'impresa e, portati alcuni chilogrammi di carta scritta alla sede delle Edizioni Avanti!, dissi a quei bravi ragazzi: « Arrangiatevi! ». Si sono arran­giati; e mi hanno messo dinanzi al. fatto compiuto di cento pagine di bozze di stampa da correggere.

Il pubblico si domanderà: « Ma questo benedetto uomo, dunque, non ha fatto altro in vita sua che scrivere versi? ».

Ebbene, é cosi, lo confesso. E se si pensa che la prima poesia risale a quando avevo dodici anni e che oggi ne ho cinquantacinque, non c'è da stupirsi della enorme quantità di carta che ho consumato (senza parlare delle poesie scritte sui muri, sui tavoli dei caffè, sulla sabbia, o non scritte per niente e affidate al vento).

Avevo giusto dodici anni, quando (inaudito scandalo!), dopo una generazione di Cavalieri medagliati e magnificati, venni allontanato dall'austero collegio di Montecassino, dove frequentavo il ginnasio, per una poesia sequestratami dal reverendo padre rettore, nella quale prendevo sacrilegamente in giro tutti i benedettini del pio luogo.

L'esito di quella prima poesia avrebbe dovuto sconsigliarmi dal proseguire per quella strada: si intuiva facil­mente che sarei finito in galera. E se proprio in galera non finii (ma non è detta ancora l'ultima parola), non fu per clemenza di giudici, ma solo perché fui condannato in con­tumacia. E il motivo sostanziale fu sempre quello: poesie più o meno sacrileghe.

Ettore Petrolini diceva che a lui lo aveva rovinato la guerra. E, in un certo senso, la guerra ha rovinato anche me: perché quella mania di verseggiare, che era comune una volta a tutti i ragazzi, col tempo sarebbe forse passata,e invece, a causa della guerra, fini col diventare per me una professione. Fu a causa della guerra, infatti, che io mi iscrissi alla facoltà di chimica: ne nacque quella Chimica in versi che contribuì decisamente alla mia carriera umo­ristica. E, in fondo, la differenza fra chimico e ... comico, sia pure foneticamente, è casi poca!

A volte, la scelta di una carriera dipende dalle circo­stanze più impensate. Non ricordo quale scrittore osservava che il più delle volte papà manda il figliuolo al ginnasio perché questo è a due passi da casa, mentre per raggiun­gere le scuole tecniche bisognerebbe ,prendere il tram, o viceversa. Nel mio caso, la scelta fu dettata da un'altra cir­costanza. Papà aveva notato che gli studenti di legge o di lettere, in quegli anni di guerra, finivano tutti ufficiali di fanteria o dei bersaglieri, mentre agli studenti di scienze ve­nivano riservate le armi del genio o di artiglieria. Non già che il babbo disprezzasse gli ufficiali dei bersaglieri, anzi, li ammirava moltissimo, ma preferiva che il figliuolo diven­tasse geniere o artigliere, pensando che avrebbe corso meno pericoli.

Mi iscrissi casi alla facoltà di chimica. E per un anno frequentai, anzi, non frequentai l'Istituto chimico dell'Università di Roma Ma alla fine dell'anno accademico bisognava pur dare qualche esame, non solo allo scopo di avere mag­giori titoli per essere ammesso al corso accelerato di allievi ufficiali del genio e di artiglieria di Torino, ma anche per dimostrare al babbo che i soldi spesi per mantenere il figliuolo agli studi erano serviti a qualcosa.

Direttore della Facoltà e titolare della cattedra di chi­mica generale era il sen. Paternò, illustre chimico, il quale aveva però fama di uomo terribile. Dalla sua scuola non erano usciti, prima di allora, che chimici perfetti. Sennon­ché i professori, in quegli anni, avevano ricevuto la raccomandazione di essere di manica larga con quei bravi gio­vani che arrischiavano la vita per la patria; e bastava pre­sentarsi agli esami in grigioverde per essere senz'altro pro­mossi, anche se il prof. Paternò, poco convinto, nell'annun­ziare il « diciotto» all'esaminando, borbottava: « La cernita la farà la vita ».

Fatto sta che mi si allargò il cuore, assistendo a quegli esami; vidi promuovere abissi di ignoranza. E poiché io conoscevo la formula dell'acqua (H20), la formula dell'acido cloridrico (HCl), perfino ]a formula dell'acido solforico (H2S04), mi sentivo un leone e decisi di tentare l'avven­tura. Ma ... c'era un piccolo « ma »: io non ero ancora soldato; lo sarei stato fra tre mesi, ma per il momento indos­savo un volgare abito borghese. E, quando mi presentai agli esami, lessi qualcosa di agghiacciante nello sguardo con cui mi squadrò il terribile senatore; una specie di «oh, finalmente! », che non presagiva niente di buono.

L'esame fu breve e violento.

« Mi scriva la formula dell'acido clorico », fu la prima domanda. Guardai costernato il professore.

« Acido.. cloridrico? », insinuai timidamente.

« Acido c1orico! », egli ribadì in modo perentorio.

Dovetti ammettere che io non conoscevo l'acido clorico.

Una occhiata di sdegno e di disprezzo, seguita da quest'altra domanda, rivoltami a bruciapelo:

« L'ammoniaca: formula ».

Silenzio.

« Solida, liquida o gassosa? ».

Ma si, l'ammoniaca, in fondo, la conoscevo, sia pure ignorandone la formula: era quel liquido nelle boccettine, che le signore fiutavano in caso di svenimento.

« Liquida », risposi.

Invece, era un gas. Non nascosi il mio stupore; e quando mi fu rivolta, subito dopo, la stessa domanda a proposito dello zolfo, io, pur disposto a mettere la mano sul fuoco che si trattava di un composto solido, tacqui: le sorprese, non si sa mai...

Sembrava che il professore si divertisse con me, come fa il gatto con un gramo topolino che gli capiti fra le unghie. «Il carbonato di calcio è solubile o insolubile nell'ac­qua? », fu l'ultima domanda.

Dopo un rapido calcolo, pensai che conveniva arrischiare una risposta, con cinquanta probabilità su cento di azzeccarci: o è solubile, o è insolubile, di qua non si scappa. E decisi di tirare mentalmente a sorte. Fui sfortunato: usci « solubile »

Era una mattina piovosa. Nel cortile dell'Istituto bian­cheggiava il busto in marmo dell'insigne chimico Cannizzaro. Io non sapevo allora che il carbonato di calcio fosse precisamente il marmo. E quando il prof. Paternò si senti rispondere che quel pregevole composto è solubile nell'ac­qua, balzò su come una molla, urlando:

« Un ombrello! Un ombrello! Un ombrello! ... ».

Li per li, io pensai che volesse rompermi un ombrello sulle spalle. No; voleva soltanto che corressi a riparare quel povero prof. Cannizzaro in cortile: « perché a quest'ora, sotto quest'acqua, chi sa come si sarà ridotto! »

Uscii dall'aula con la coda fra le gambe, con una illusione in meno e uno zero in più nella vita. E, nell'attra­versare il cortile dell'Istituto, lanciai uno sguardo cattivo al busto del prof. Cannizzaro, notando che, effettivamente, egli resisteva alla pioggia in modo egregio.

Bisognava riparare in ottobre, e durante le vacanze mi diedi a studiare la chimica e ... a metterla in versi.



Poi ch'era ancor più arida nella calura estiva,

io m'ingegnai di rendere la chimica più viva,

onde, tradotta in versi, l'imparai tutta a mente;

e in versi, nell'ottobre, risposi a quel sapiente.

 

Proprio così; quando il prof. Paternò, fosse per pura coincidenza, fosse perché aveva una memoria di ferro, mi invitò, come tre mesi prima, a parlargli dell'acido clorico, io gli risposi:

 

« L'acido clorico

s'ha in generale

trattando un acido,

con un suo sale;

 

nel caso semplice

ed ordinario

è preferibile

quello di bario,

 

che col solforico

forma il solfato,

bianco insolubile

precipitato... ».

 

«Lo zolfo? »

«sostanza insipida,

giallo-ci trina,

molto solubile

nella benzina ... ».

 

E cosi di seguito. Di quel memorabile esame parlò Il Messaggero e ne parlò perfino il parigino Le Matin. Fui pro­mosso con « trenta », mi convinsi di conoscere la chimica a menadito e, finita la guerra, mi laureai. Mio padre era felice: « I chimici », diceva, « guadagnano soldi a palate ». 'E, in una famiglia di avvocati, un chimico era una promettente novità.

Ma io il chimico non volevo far lo. Chiesi a mio padre alcune migliaia di lire da versare come caparra a una ipo­tetica società chimica, che doveva tutelare i propri preziosi prodotti e dalla quale sarei stato assunto in servizio a con­dizioni vantaggiosissime; ed egli mi consegnò la somma a occhi chiusi. Mai il denaro di un onesto padre di famiglia ebbe impiego più infelice. Spesi più di tremila lire in vestiti e parrucche, e sistemai il resto nella bisca di un famigerato baro. Dopo di che, fui scritturato, col ruolo di generico, dalla Compagnia Palmarini-Capodaglio, che faceva allora una tournée col Beffardo di Berrini. La mia carriera di attore non durò che due mesi; eppure, incominciai con una salva di applausi: credo che nessun attore, al suo debutto, ne abbia ricevuti tanti.

Mi era stata affidata, nel Beffardo, la parte di un certo Puccio, il quale in tutto il dramma, anzi, in tutto il «fresco dugentesco» non diceva che queste tre parole: « Quel del Picchio ». Al secondo atto, precisamente, dovevo rispondere cosi alla domanda di Palmarini (Cecco Angiolieri): « Che canto, allora, canterai stasera? », o qualcosa di simile. « Quel del Picchio »: era tutto.

Non per questo, intendiamoci, io mi scoraggiavo. Sapevo che Tommaso Salvini aveva debuttato con una parte ben più modesta della mia, dovendo pronunziare, in non so più qual tragedia dell'Alfieri, un solo monosillabo: « Fu! », per annunciare la morte di un illustre personaggio. Prese però la sua parte cosi a cuore, che per giorni e giorni, prima della recita, declamò questo «fu» in tutti i toni possibili e immaginabili: fu, fu, fu, fu., fu... Fatto sta che la sera della rappresentazione, indeciso su quale di quei «fu» dovesse fermarsi la sua scelta, egli stese tragicamente il braccio innanzi ed emise solo un fffffff...

Io fui molto più fortunato, come vi dicevo: fin dalla prima sera quelle mie tre parole furono accolte da applausi formidabili. Non perché avessi studiato per giorni e giorni il modo di trarre da quelle tre parole effetti di travolgente entusiasmo, ma perché tutti i miei colleghi universitari si erano dati convegno al Teatro Argentina di Roma, dove agiva la Compagnia, decisi ad applaudirmi a ogni costo.

 

«Ma c'è poco da applaudire, non dico che tre parole, tre contate: 'Quel del Picchio' ».

«Non importa; ti applaudiremo lo stesso ».

 

E mantennero la promessa. La sera, non appena io pro­ferii le parole fatali, mezzo loggione balzò in piedi frene­ticamente, salutandomi con un delirio di applausi e con irre­frenabili grida di «Bravo! Viva Cavaliere! ».

Giuseppe Porelli, presente alla scena nella parte di Ugone, si volse stupito verso la piccionaia plaudente, mentre, nell'occhiata, che mi lanciò Palmarini interdetto, io lessi chiaramente un desiderio di prendermi a calci.

« Ma come, non ti vergogni? », mi disse, quando il sipario si fu abbassato. « Ti organizzi questa sorta di claque per due parole che pronunzi! »

«Tre, veramente », gli feci osservare. E gli spiegai che si trattava di studenti e amici, i quali avevano colto il destro per venire a fare un po' di chiasso.

All'indomani, alla Trattoria degli Studenti di via Urbana, dove consumavano i loro pasti alcune centinaia di goliardi di tutte le facoltà, narrai in qual modo il mio capo­comico mi avesse redarguito. La cosa piacque enormemente, e alcuni di quelli che erano stati a teatro la sera precedente ne reclutarono altri, pronti a rinnovarmi quella manifesta­zione di stima e di entusiasmo. Li supplicai di non farlo: «. Mi farete perdere il posto, spezzerete la mia carriera! ». Niente; la sera, non appena entrato in scena, alzai timoroso gli occhi verso il loggione e tremai: era gremito!

Quando il povero Palmarini, guardandomi con una espressione che io solo potevo capire, mi domandò:

« Che canto, allora, canterai stasera? », io gli risposi con un filo di voce, con grande umiltà, chiedendogli quasi anticipatamente perdono: «Quel del Picchio». Per poco non crollò il teatro!

E per tutto il tempo durante cui la Compagnia rimase a Roma, ogni sera, con ammirevole costanza, gli studenti di via Urbana si presentarono puntualmente al loggione del­l'Argentina. E siccome pagavano (poco, ma pagavano), or­ganizzavano collette, ricattavano perfino il trattore, minac­ciandolo di abbandono se non li avesse sovvenzionati in quella impresa.

La partenza da Roma fu la fine di un incubo. Ci trasferimmo a Napoli, al Teatro dei Fiorentini. Fioriva la prima­vera e Napoli era una meraviglia, Avevo anche li molti amici. Questi, per fortuna, non venivano ad applaudirmi; ma quando, dopo un mese e mezzo di recite, la Compagnia si apprestò a levar le tende, mi esortarono a rimanere a Napoli. Che gusto provavo ad andare in giro per le città d'Italia, con una paga di quindici lire al giorno, per dire: « Quel del Picchio», oppure: «Signora., c'è un signore». Già, perché adesso recitavamo, di tanto in tanto, anche una com­media, La piccola cioccolataia, in cui avevo precisamente quella battuta. è vero, c'era un progresso (cinque parole invece di tre), ma non tale da lusingare la mia vanità d'artista.

 

Si aggiungano alle esortazioni degli amici anche quelle di Roberto Bracco, il quale aveva per me un affetto paterno e mi esortava a lasciare il teatro, prima di abituarmi a quella vita. Mi diceva: « Se tu a quarant'anni sarai un modesto chimico, la gente ti farà sempre tanto di cappello; ma se arriverai a quell'età modesto attore, ti sputerà in un oc­chio ». Io, veramente, allora non pensavo ai quarant'anni; comunque, alla partenza della Compagnia feci «scena vuo­ta», come si dice in gergo teatrale. Il capocomico e i miei colleghi avranno pensato che io, deluso dal fatto che gli applausi mi erano venuti improvvisamente a mancare, avevo deciso di abbandonare le scene.

 

La verità è che il mio amico e concittadino Michele Guer­risi, allora agli inizi della sua carriera di scultore e oggi direttore dell'Accademia di Belle Arti di Roma, mi aveva presentato al direttore di un settimanale pubblicitario, dove egli lavorava come disegnatore. Sembrava che quel diret­tore (uno dei tipi più bizzarri e più interessanti che io abbia mai conosciuto) non aspettasse che l'arrivo di un poeta. Dopo che gli ebbi recitato alcune mie poesie: « E vuje facite 'o cammeriere co' Palmarini? », gridò indignato. « Vuje avite a restà ccà! »..

E, messo mano al portafoglio, mi consegnò mille lire, dicendomi che quelle non erano che un anticipo.

Per un paio di mesi le cose andarono a gonfie vele; io distillavo versi pubblicitari a tutto andare, con piena sod­disfazione di quel magnifico mecenate, il quale accoglieva in quel suo atelier sul Vomero gli artisti di mezza Napoli, dispensando a tutti biglietti da mille. Ma un bel giorno, anzi, un brutto giorno, egli scomparve e l'atelier fu assalito da un'orda di creditori.

I viveri cominciarono a mancarmi. Non avevo il coraggio di fare il figliuol prodigo e di tornare contrito in seno alla famiglia paterna. Vendetti il mio vestiario a prezzi di assoluta concorrenza, finché, vuotato il mio guardaroba e rimasto con l'unico abito che indossavo, un giorno mi ricordai di essere chimico. E trovai da impiegarmi presso la Elettrochimica Pomilio. Onorario: quattrocento lire al mese. Ma anche la mia carriera di chimico, ohimé. fu breve e ingloriosa.



In mezzo ad uno stuolo di macabri alchimisti,

i giorni erano lenti e orribilmente tristi.

Con le provette in mano, distratto, mogio mogio,

annichilito, ogni attimo guardavo l'orologio.

Ed i minuti scendere vedevo a goccia a goccia,

come da un alambicco: sicché, se in una boccia

raccogliere li avessi potuto (che trovata!),

avrei forse ottenuto la noia distillata.

C'era una serva, ed era pure un'orrenda cosa,

ma, disperato, un giorno le sussurrai: « Graziosa! ».

S'inviperì: « Si faccia gli affari suoi, dottore! ».

Oh, certamente il cloro le aveva roso il cuore!

Fuggii dal tristo loco, gridando: « Libertà! »,

mentre bolliva un acido che ancora bollirà ...

 

Gli amici delle Edizioni Avanti! mi avevano chiesto una breve prefazione con qualche nota autobiografica. Ma io mi sono lasciato prendere la mano dal fascino dei ricordi gio­vanili, oggi che non vedo più i minuti scendere « a goccia a goccia », ma vedo minuti, giorni, anni scendere precipitosa­mente lungo il pendio; e, in luogo di una breve prefazione, mi accorgo che sto per scrivere un romanzo.

Ora dovrei raccontare che cosa mi accadde dopo aver ab­bandonato quell'acido al suo destino, e dovrei parlare di tanti viaggi: a Mosca, a Berlino, a Vienna, a Parigi, e come entrai nella vita politica; ma in questo caso finirei col dare al let­tore cento pagine di prosa, anziché di poesia. D'altronde è facile e piacevole narrare innocenti episodi di giovinezza, più arduo e più impegnativo diverrebbe il racconto di ben alltri episodi, che si ricollegano a una serie di anni agitati, in cui militare in un partito clandestino voleva dire davvero «vivere pericolosamente », anche sotto la veste ufficiale del giornalista, dell'impiegato o del... fine dicitore.

Quello che mi interessava era, in queste pagine, spiegare ai lettori attraverso quali vicende io sia diventato un fuci­natore di rime.

 

E ritorno alla Chimica in versi. Quando questa fu pubblicata, ottenne un successo insperato, e non solo presso gli studenti. Intendiamoci, io ero ben lontano dal pretendere di avere scritto un libro di testo, oltre il quale la scienza chi mica non avesse più nulla da dire; ma la mia sorpresa fu grande, quando, in seguito a quel successo, mi vidi invitato a entrare come redattore al... Travaso. E cominciò cosi la mia carriera di scrittore umoristico.

Poi passai al Becco giallo, il settimanale antifascista fondato nel 1923, e al quale collaborai fin dai primi nu­meri. Gli anziani ricordano che cosa abbia rappresentato quel giornale agli inizi della dittatura. è da quel settima­nale che sono tratte alcune delle satire pubblicate in que­sto volume.

Generalmente, versi e articoli che si gettano giù nei fogli umoristici e satirici hanno un valore contingente, stretta­mente legato all'attualità di un personaggio o di una vicenda; ma personaggi e vicende di quegli anni, è fin troppo noto, hanno inciso profondamente nella vita italiana di oggi e, anche se su molte cose è sceso il velo dell'oblio, alcune di queste poesiole, a parte quello che può essere il loro valore letterario, rappresentano una documentazione, sia pure spic­ciola, di un'epoca, e come tali possono essere interessanti.

A questa stregua vanno considerate anche le altre poesie politiche, sulle quali si è fermata la scelta dei miei amici nella compilazione di questo volume; poesie sgorgate forse dall'animo di un uomo di parte e che suoneranno male alle orecchie di molta gente, in questa atmosfera della nostra vita nazionale, arroventata ancora come non mai dalle passioni politiche. Ma mi conforta la certezza della buona accoglienza che a quelle poesie farà la parte più umile che è poi la parte più viva, del nostro popolo.

E non mi ha per nulla offeso un giornale democristiano che, recentemente, mi ha dedicato un articoletto in cui diceva che i nostri bravi proletari, non riuscendo a comprendere Montale, avevano bisogno di un facile verseggiatore, a portata della loro intelligenza. In verità, non aspiravo a una maggiore lode e confido che, come è accaduto in altri tempi, anche una umile e facile, poesia possa contribuire ad animare la fede e la speranza del popolo nella lotta per la libertà e la democrazia.


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ALBERTO CAVALIERE


foto del poetadedica autografata dal poeta


 

 




la copertina del libro

Alberto Cavaliere "La parola a Alberto Cavaliere"

 

La Parola a Alberto Cavaliere

 

INCONTRI CON GLI EROI DEL NOSTRO TEMPO


1 - IL PENSIONATO STATALE

 

L'ho incontrato ai Giardini. Era un omino

pallido, smunto, con lo sguardo assente;

attraverso il vestito trasparente

gli si contavan l'ossa, poverino.

Magro, sparuto; ai piedi (o mi sembrò?)

aveva le ciabatte di Charlot.

 

Dapprima mi guardò con diffidenza,

quando gli dissi ch'ero un giornalista;

ma dopo mi concesse un'intervista,

dicendomi: « Sia breve, abbia pazienza;

ho poche forze ed il parlar mi nuoce,

per cui mi tocca risparmiar la voce ».

 

Mi chinai su di lui rabbrividendo:

sentiva di cadavere... In un soffio:

« Io son », mi disse, « il cavalier Scartoffio,

pensionato statale ». «Ora comprendo! »:

gli strinsi con la massima cautela

la mano, gialla come una candela.

« E dica, come mai non e ancor morto? ».

« Che cosa vuole! Il caro-funerale ... ».

« E come passa il tempo? ». « In generale,

leggo il Conte Ugolino e mi conforto;

pensi che, nonostante i miei sbadigli,

non ho mangiato ancor nipoti e figli! ».

 

« Una gran forza d'animo la sua!

Si parla dei digiuni memorandi

fatti dalla buon'anima di Gandhi,

che al suo confronto è stato un Gargantua... »

Gli chiesi: «Posso offrirle uno spuntino? ».

«Grazie, ier l'altro ho preso un cappuccino ».

«Ci facciamo due passi? », «è una parola,

caro signore! ». «E dica, in che partito

milita? ». Apri le labbra il denutrito,

ma la risposta, ohimé, gli mori in gola,

e per farsi capir pur senza voce,

tracciò nell'aria il segno d'una croce.

«Ora spira! », pensai; ma in quel momento,

vedendo un gruppo d'uomini ribelli

che passavan di là con dei cartelli,

«Pace e giustizia », « Alloggio e nutrimento »,

«Il pane ai pensionati» e casi via,

in lui si ridestò qualche energia.

Si scosse dai suoi squallidi pensieri:

« Presto, m'aiuti a sollevar le braccia! ».

L'aiutai: fece un gesto di minaccia:

« Assassini! », gridò. « Filibustieri!

Nemici delle patrie istituzioni!

Porci! Venduti! », e cadde giù bocconi.


***

 

2 - SNOB

 

Ad ogni guerra, Perduta o vinta,

segue una moda più o meno spinta.

Nel '19, quando Parigi

sembrava al colmo dei suoi prodigi,

lanciando il tipo della garçonne,

fece insanire tutte le donne.

Che tempi quelli per le ragazze!

Eran di moda le idee più pazze.

La donna, stanca di far la schiava,

a tredici anni si emancipava:

giacca e cravatta, capo scoperto,

capelli corti, quasi all'Umberto;

una borsetta di pelle fina,

con dentro un grammo di cocaina.

Tra maschi e femmine, in apparenza,

nessuna traccia di differenza,

benché restasse sempre integrale

la differenza fondamentale,

che sembra niente, ma che ben tosto

rimise quasi le cose a posto.

La moda, invece, ch'oggi imperversa,

è di natura molto diversa.

Dei suoi seguaci più accreditati,

fra vitaioli spregiudicati

e « gagarelle » più o meno sciocche,

nell'ora sacra del faivoclocche

trovi in Via Monte Napoleone

un campionario che fa impressione.

è, nella vecchia plebea Milano,

il buen retiro del baciamano:

è il profumato tempio dell'ozio,

dove non trovi solo il negozio

o il caffeuccio piatto e volgare,

ma un angoletto crepuscolare,

dove, fra inchini, profumi e vezzi,

son profumati più ancora i prezzi.

Vi ricordate di quel « gagà »

che imperversava tanti anni fa?

Era lo scemo senza un « luigi »,

che sospirava la sua Pavigi;

era il decoro del marciapiedi,

che amoreggiava con una lady;

era l'artista della stoccata,

che redimeva la cicca usata.

il cavaliere dell'erre moscia,

l'eroe mancato della deboscia,

senza speciali complicazioni

oltre alla riga dei pantaloni.

Rinvigorito dopo tre lustri

da una panciata di film illustri,

da ricchi sorsi di whisky and soda

(una bevanda sempre alla moda)

e da una nuova ricchezza-lampo,

il « gagarone » del vecchio stampo

s'è trasformato nel fatalone

che va per Monte Napoleone.

è un esponente del tempo nostro:

no, poverino, niente Cagliostro,

né Casanova, né Don Giovanni;

è un imbecille Sul fior degli anni,

i cui problemi fondamentali

sono i pullovers sensazionali,

il bridge, il tennis, le corse,i cani,

(<< Son cosi pveso tutto domani! »),

e la sua « scatola »: la mille e cento

(<< racchia », ma in fondo non n'è scontento).

 

Certo, è un ragazzo molto pulito:

« Il bagno è l'uomo », proclama e uscito

di casa, sente d'un fresco effluvio:

egli è un assiduo del pediluvio.

Per l'eleganza non bada a spese:

indossa un abito di stoffa inglese

(stoffa che a Biella fu fabbricata,

è per inglese che l'ha pagata).

In una tasca dei pantaloni

ha una manciata di bigliettoni

e quando occorre, ligio all'usanza,

li tira fuori con noncuranza,

quasi confuso - vi fa capire -

che non sian dollari, ma appena lire.

Ha il bar in casa, dove agli amici,

tutti più o meno ricchi e felici,

offre un cocktail, con cui sfidate

tutti i veleni di Mitridate.

Dopo ingerito quell'elisire,

comincia l'« orgia »: sarebbe a dire,

s'attacca un disco con un jazz negro

o brasiliano, triste od allegro,

e s'accompagna: du du du du,

sotto una luce violetta o blu.

Quindi, esauriti cinque o sei dischi,

si beve un dito di falso whisky,

s'esclama in coro: «Però, che vita! »,

e si va a letto: l'« orgia » è finita.

 

Non c'è mai caso che quel baggiano

risponda al mite nome: Gaetano;

sul suo biglietto non c'è mai caso

che porti scritto Rocco o Tommaso:

sta pur sicuro che il signorino

si chiama Bepo, si chiama Pino,

si chiama Gege, si chiama Memo;

innocuo in fondo, ma tanto scemo!

E se davvero veder lo vuoi

« nel quinto cielo dei fasti suoi »,

dove il suo genio più se la fa,

è nelle sale del cinemà

Li favellando delle « riprese »,

sfoggia i sei nomi del proprio inglese

(sei nomi in tutto, ma s'è convinto

che sa l'inglese quasi d'istinto,

e che fa parte di quell'élite

che parla il gergo di Broadway Street).

Trova ch'è buona la « dissolvenza »,

che il film è fatto con diligenza;

osserva pure ch'è indovinata

e originale la « carrellata »,

che per l'effetto dei « primi piani »,

ci sono solo gli amevicani

Spesso a godersi va, in un locale,

dei film esotici l'originale,

senza il doppiaggio, che toglie il pregio,

che sa di trucco, ch'è un sacrilegio:

no, chi ha sentito la voce autentica

di Rita Haywort, non la dimentica!

E in italiano com'è indigesta!

« Fovse è la lingua che non si pvesta ».

Questo, il ritratto del « gagarone »

che va per Monte Napoleone

e al socialismo perdonerà,

purché sia quello di « Savagà »..

 

è lì che trovi ,spirituale,

fine, moderna, la pia vestale

dell'eleganza, di quel buon gusto

che ormai dilegua da un mondo frusto.

è molto ricca la signorina:

mamma ha venduto tanta farina!

Non bada a spese madamigella:

babbo vendeva la mortadella

ed ha rischiato fin la galera,

quando regnava la borsa nera!

Come si chiama? Carla? Marianna?...

No, ve ne prego, freme, si danna,

se le affibbiate siffatti nomi:

lei non demorde da certi assiomi,

per cui la vita senza l'« i » greca,

che in altre lingue tardo si spreca,

o per lo meno senza l'« e » muta,

non val la pena d'esser vissuta.

Giunta alla soglia dei quindici anni,

perciò si chiama Lilly, Lully,

Anny, Mary, a seconda dei suoi capricci:

se tutto manca, si chiama Cicci.

Le americane: lo so, lo so,

per imitarle fa quel che può.

Compra famose riviste esotiche

e, quando sfoga le smanie erotiche,

dice: « my darling »: c'è più decoro

che in quei nostrani « caro» o « tesoro »,

Carezzerebbe l'idea chimerica

di trasferirsi nel Nord-America:

in base ai film ch'ella ha ammirato,

quello è un paese spregiudicato,

dove la donna sposa, fa il corno,

e poi divorzia, tutto in un giorno.

Se avesse avuto più iniziativa,

avrebbe forse fatto la diva:

qui c'è un ambiente più provinciale,

che, in certo senso, le tarpa l'ale...

Sputa pensieri triti e ritriti

sui vari Freud mal digeriti,

parla di Sartre, di Salacrou

(<< Mi piace un pozzo ». «Non mi va giù »):

non ha mai letto, naturalmente,

neppure un rigo di quella gente.

ma sa che anch'essi, col whisky and soda,

sono dei nomi molto alla moda.

E. nonostante tanta cultura,

quando si sente sola e sicura,

legge i romanzi dell'Invernizio,.

cambiando il nome sul frontespizio.

La troverete nell'ore buone

in quel di Monte Napoleone.

che, nella vecchia plebea Milano,

è il buen retiro del baciamano.

 

***

 

3 - INCONTRO CON UNA LETTRICE DI LIALA

 

«La posso accompagnar, madamigella?

Solo un momento: è tanto che la spio,

e voglio intervistarla ». « Eh, signor mio,

voi non fate per me: son troppo bella!

Siete, aviatore? ». « Ohimé, no, signorina! »,

«Siete almeno ufficiale di marina? ».

 

« Neppure! ». « Siete almeno un milionario?

Possedete automobili, palazzi

in riva al mare, favolosi arazzi

di Persia, laspislazzuli? ». « Al contrario:

ho il lapis solo... Làzzuli - che sogno!-

io non n'ho avuti mai: me ne vergogno! ».

 

«Mettete sotto i piedi delle amanti

doviziose pellicce d'ermellino?

Partecipate al Derby di Dublino?

Usate dei profumi ossessionanti?...

Non siete un personaggio di Liala,

col cuore insonne e l'abito di gala? »

« lo sono un giornalista ... », « Ah, ma sicuro!

Scrivete ardenti lettere d'amore

su carta del Giappone alle signore?...

Oh, chiamatemi Tea, ve ne scongiuro!...

E con la penna avete molta pratica.

o fate degli errori di grammatica? ».

 

«Non credo: ho la licenza elementare ».

«Oh, come invidio le persone colte!

lo pure, però, leggo: ho letto molte

novelle, e confidenze a tutt'andare ... ».

« Conosce Dante, Alfieri ... ? ». « è gente? ricca?

Per me i pezzenti valgono una cicca ».

 

« Ma dica, ha letto almeno i malfamati

Promessi sposi? ». «Mi prendete in giro,

signore? Nei romanzi che più ammiro,

gli sposi sono tutti divorziati ».

«Però, bellina: un tipo novecento.

Potrei sperare in un appuntamento? ».

«Soltanto se verrete in automobile,

e accompagnato da un autista incauto:

sognerei tanto un incidente d'auto,

un bello scontro, mentre il tram ignobile,

a parte qualche pizzico plebeo"

non vi dà nulla: è roba da museo...

Verrete, allora, a prendermi domenica

nel pomeriggio? ». « A sua disposizione ».

« Ma adesso salutiamoci, barone:

è tardi, e la padrona è nevrastenica.

Io fo qui la domestica: san giunta...

Domandate di me: Cacace Assunta ».

 

***


4 - L'INSEGNANTE DEMOCRISTIANO

 

Entra il signor maestro. Alla parete

il papa e il Crocefisso (fra non molto

anche il signor De Gasperi, col volto

aureolato e in abito da prete).

Una lode al governo, una al Signore,

e: « Cominciamo », dice il precettore.

 

Adesso, nelle scuole clericali,

ci sono due materie: il catechismo,

spiegato a parte, e l'anticomunismo,

che abbraccia le materie principali...

Ond'egli inculca ai cari giovanetti

questi sublimi e semplici concetti:

 

« Don Garibaldi prete: adolescente,

compi tutti i suoi studi in seminario,

partì per l'Uruguay, pio missionario,

dopo tornò in Italia e santamente,

di Sant'Ignazio illuminato erede,

si batté per il papa e per la fede...

 

Dante Alighieri, il sommo fra i

poeti, scrisse un poema, definito eterno,

in cui narra un viaggio nell'inferno,

ovvero nella Russia dei Sovieti,

nonché nel paradiso, ove in forbiti

versi preconizzò gli Stati Uniti...

 

Un eretico pazzo, il Galilei

(per poco non finì sull'empia pira!),

assicurava che la Terra gira,

mentre la Terra è ferma, cari miei;

specialmente l' Italia vescovile.

ferma alla data del diciotto aprile ... ».

Sistemate le lettere, la storia

la geografia con sintesi felice,

il buon maestro s'alza, benedice

la scolaresca - pater, ave e gloria -

e chiude la lezione austera e pia,

nel nome di Gonella. E cosi sia.


***


 

5 - CLARK GABLE

 

T'invidio, Clark, eroe lungo-orecchiuto,

astro fulgente che le folle abbaglia:

tu sei la più simpatica canaglia

che il mondo dello schermo abbia veduto.

 

E corri fra il Pacifico e l'Atlantico,

spensierato cow-boy della violenza.

T'invidio, Clark: in te la prepotenza

acquista quasi un fascino romantico,

Tu signoreggi fra gli avventurieri,

in un mondo selvaggio e primordiale,

dove a colpi di scure e di pugnale

avanzano i banditi e i pionieri;

passi con la tua aria scanzonata,

con i tuoi pugni e con la tua pistola;

e gli uni o l'altra han l'ultima parola,

dandoti la vittoria incontrastata.

E tu sorridi sotto i lievi baffi,

o fatalone per antonomasia,

moderno scita che il bel sesso estasia

mostrando i denti e dispensando schiaffi.

 

Sei Don Giovanni che mutò favella

e la maniera forte ha inaugurato,

invece d'una rosa o d'un gelato

offrendo un manrovescio alla sua bella.

 

T'invidio, Clark, e sogno il tuo coraggio

e quel tuo piglio tra l'apache e l'unno,

come, leggendo Sàlgari, da alunno

sognavo la riscossa e l'arrembaggio.

Penso alla sorte che mi fu matrigna,

io che temo mia moglie e il principale.

E guardo il tuo ritratto sul giornale,

ritratto che mi guarda e che sogghigna.

 

Ma, in fondo, mi conforto, io derelitto:

tu, quando smetti i panni dell'attore,

forse diventi un semplice signore,

timido e mite come il sottoscritto:

 

e in casa non hai più quel piglio audace

che tanti al1ori al cinema raccoglie ...

Dimmi la verità: quando tua. moglie

ti dà un ceffone, tu lo incassi in pace!

§§§§

 

INCONTRI CON GLI EROI DEL TEMPO ANTICO


6 - AMLETO

 

Un giorno Amleto nel suo castello

vede lo spettro del padre amato,

che gli rivela: « M'ha avvelenato

quel farabutto di mio fratello

e, ancor di pianto fresco l'avello,

la sposa e il trono m'ha poi soffiato ».

Nel dolce cuore del giovanetto,

che vagheggiava sublimi aurore,

angelo nero scende il dolore:

un dubbio atroce gli cova in petto;

ed egli insorge contro ogni affetto,

spregia la gloria, sdegna l'amore.

Si finge pazzo, vaneggia e celia;

contro la Corte, che n'è accasciata,

dalle sue labbra scocca spietata,

come una freccia, la contumelia.

Simula pure dinanzi a Ofelia,

la pia fanciulla che ha tanto amata.

 

Quando la incontra sulla sua via,

più non la tratta che a teschi in faccia:

« Va in un convento! », cosi la schiaccia

sotto il macigno dell'ironia.

alla tapina cascan le braccia

dinanzi al ghigno della follia.

 

Vede sfiorire nel triste oblio

le rose, un tempo così leggiadre.

Il fosco prence le ammazza il padre,

gran ciambellano del Re suo zio;

e l'orfanella, già senza madre,

si getta in acqua volando a Dio

.

Amleto (essere oppur non essere?)

nell'incertezza trafigge tutti;

la sua vendetta continua a tessere

e, chi di ferro chi in mezzo ai flutti,

mentre nel regno cresce il malessere,

casati interi vengon distrutti.

 

Nel cimitero poi si diverte

a intervistare l'affossatore,

fra un brano e l'altro, fredda Laerte;

il Re s'abbatte; lui stesso muore;

l'iniqua madre rimane inerte ...

Si salva il solo suggeritore.

 

***


 

7 OTELLO

 

Dopo che Otello - regolarmente -

domò l'orgoglio del mussulmano,

fu dal Senato repubblicano

mandato a Cipro come reggente.

Cassio era il fido luogotenente,

Jago l'alfiere del capitano;

 

del capitano, che un dì conquista

una fanciulla che impalma e adora,

mentre dal Doge giustizia implora

il di lei padre, persona in vista,

perché - sostiene - lo disonora

quel matrimonio di razza mista.

 

Jago era un uomo pieno di fiele,

che odiava il capo, nonché il compagno,

e che credeva, bieco e grifagno,

nella potenza d'un dio crudele,

per cui, tenace sinistro ragno,

ordiva solo malvage tele.

 

Tolse a Desdemona un fazzoletto

che il nero sposo le avea donato,

e fece in modo che poi trovato

fosse di Cassio vicino al letto:

più nero, morso dal rio sospetto,

divenne Otello lo sventurato.

E in una notte di frenesia

il cimitero si popolò;

la sposa disse l'Avemaria,

lui col guanciale la soffocò

(che brutta cosa la gelosia!):

« Come sei pallida! », indi esclamò.

Ma quando seppe del vil tranello,

le pie memorie fra sé rivisse,

maledì Jago, poi si trafisse

presso l'amata, con un coltello.

(<< Come sei pallido!» nessun gli disse,

poich'era moro, povero Otello).

 

lo penso adesso: se a causa, solo,

d'un fazzoletto sia pur di pregio,

uno commette tal sacrilegio

pei bassi intrighi d'un tristanzuolo,

sterminerebbe, per un lenzuolo,

di giovinette tutto un collegio ...


***


8 - LA SIGNORA DALLE CAMELIE

 

Fra un- atto e l'altro d'un melodramma,

in un palchetto dei Variétés,

un giorno, Armando Duval s'infiamma

per gli occhi belli della Gauthier:

siamo nell'anno (tutto un programma)

mille e ottocento quarantatrè.

 

Quelli eran tempi! Quelle eran cotte!

Vi basti dire che Margherita,

folle d'amore, la stessa notte,

per lui decide di cambiar vita:

perché non era ch'una « cocotte »,

per quanto ancora poco scaltrita.

Ma i sentimenti non eran brutti:

camelie bianche. camelie rosse;

amava i fiori più assai dei frutti,

soffriva pure d'un po' di tosse

(io non so dirvi che cosa fosse:

nell'Ottocento tossivan tutti).

 

Con lui, felice, quasi in miseria.

visse in campagna, fantasticando.

Ma il di lui padre, persona seria,

corse a trovarla: «Lasciate Armando!

Non è », le disse, « per cattiveria:

ho una figliuola che sta sposando ».

E Margherita tornò a Parigi,

gioie e camelie vi ritrovò,

lui non comprese, fece litigi,

di contumelie la ricolmò,

le gettò in faccia venti luigi,

cosi gridando: « Pagata io v'ho! ».

Morì, da tutti dimenticata,

mori di tisi, mori d'amore.

Divenne, dopo, la Travïata,

primo soprano. Primo tenore.

divenne Armando (che fine ingrata!)

Alfredo Alfredo di questo core.

 

***


9 - I PROMESSI SPOSI

 

è un maestoso romanzo-fiume

che - son già cento vent'anni buoni ­

scrisse, non privo d'un certo acume,

il milanese Sandro Manzoni.

La sua sfortuna fu questa sola:

ch'esso divenne libro di scuola,

 

Ebbe un successo stupefacente:

oggi non restan che pochi brani,

sia per il fatto che ormai la gente

legge soltanto gli americani,

sia perché il frutto d'una morale

che al tempo nostro s'adatta male.

Quanti fastidi, Lucia Mondella,

pur di sposare quel tessitore!

Tutto, vezzosa contadinella,

perché facesti gola a un signore,

che disse a un prete poco esemplare:

« Quel matrimonio non s'ha da fare » .

Sfuggita al bruto che ti voleva,

ti rifugiasti presso una suora,

che, sciagurata, se l'intendeva

coi più famosi gangsters d'allora:

fosti rapita (quanti spaventi!)

da una masnada di malviventi.

Chiusa dapprima dentro un castello,

dopo trionfasti, come si sa,

solo assistita da un fraticello

e dalla fede nell'onestà,

e desti a Renzo saggi consigli,

la pace e, credo, dodici figli.

 

Se al giorno d'oggi tu fossi il sogno

Od il capriccio d'un don Rodrigo,

oh, non avrebbe, costui, bisogno

d'architettare quel bell'intrigo,

mettendo in mezzo l'Innominato,

che farà ammenda del suo passato.

 

Ma ti direbbe, semplicemente:

«Ho un palazzotto ch'è un vero amore:

vieni a trovarmi, senza dir niente

né al Tramaglino né al confessore.

Cosa vuoi farne di quel plebeo,

che non può darti l'Alfa Romeo?

 

Aver gioielli, pellicce vesti,

villa sul lago, cambiar destino...

Lucia Mondella, tu pianteresti

quello spiantato di Tramaglino;

a don Rodrigo diresti: « Si » ,

ed il romanzo morrebbe qui.


***


10 - MADAMA BUTTERFLY

 

Un ufficiale della Marina

americana, molto gioviale,

sogna una bella giapponesina

diciassettenne, sentimentale.

Un «paraninfo » gliela combina:

segue un'allegra festa nuziale.

Ella rinnega per lui, serena,

l'antica fede dei samurai;

però lui parte: « Mi rivedrai,

o mogliettina, fior di verbena. .. ».

Ma i giuramenti dei marinai

son frasi scritte sopra la rena

 

Per ben tre volte col suo bisbiglio

fra i rami in fiore la nidïata

dei pettirossi s'è rinnovata;

lei sogna e spera: l'è nato un figlio,

un bel pupetto dal biondo ciglio,

nella casetta dimenticata.

Un dì, ritorna la bella nave,

su cui c'è l'uomo del suo destino:

ella lo attende col suo bambino

e col suo canto triste e soave;

teso lo sguardo, di sonno grave,

attende invano fino al mattino.

 

Dopo una notte tutta sospiri,

esulcerata dall'abbandono,

avvolto il corpo del suo kimono,

la sventurata fa karakiri.

Gli americani (niente di buono!)

giocano sempre dei brutti tiri...

 

Possiamo trarne questa morale:

per quanto ricco come re Mida,

per quanto sembri che vi sorrida,

l'americano vi concia male

Attento, Alcide, ché in generale

fa karakiri chi a lui s'affida!

 

§§§§

 

BASTA COI DUCI, FÜHRER E CAUDILLI

 

11 - FAIDA DI PARTITO (1924) - Carducciana

 

Manda il fascio in Parlamento,

grazie a brogli elettorali,

i più celebri campioni

dei novissimi ideali.

 

Ecco viene Farinacci,

mastro in dir corbellerie,

e De Bono, il generale

dalle molte acrobazie.

 

Ecco vien Michele Bianchi,

detto ancor « senza banane »,

e il quadrupede De Vecchi,

che latrar sa come un cane.

 

Tutti a nuovo, in bell'arnese,

con un feudo provinciale,

con i bravi, con la villa,

l'automobile e un giornale.

 

Hanno agli ordini fedele

ed armata una masnada :

il c1amor delle lor gesta

empie tutta la contrada;

 

il c1amor delle lor gesta

causa un moto di rivolta:

hanno un ventre poderoso,

mangian tutto in una volta.

Foderato di medaglie

hanno il petto e più di boria

(poi che letto sui giornali

han la guerra e la vittoria).

 

Chi tranquillo passeggiava

tra il viavai d'una stazione,

mai sentendo neppur l'eco

della voce del cannone,

oggi è un ras onnipotente

e per stemma ha una tettoia :

molti ha onori ed anche aspira

alla carica di boia.

Chi gridava a perdifiato,

agitando un drappo rosso,

tempestando il pan nei forni,

mendicando un soldo o un osso,

 

oggi siede a ricca mensa

e, impugnando una forchetta,

canta gl'inni della patria

fra un risotto e una polpetta;

 

scrive articoli infiammati,

chiama, i rossi, traditori,

alla folla parla adorno

con retorici colori

 

e, se alcuno gli dà ombra

e gli scopre gli altarini,

d'un pugnale prezzolato

arma il pugno di Dumini.

Il vassallo dissidente

non ha scampo ed a mazzate,

mentre dorme, avrà senz'altro

le mascelle sgretolate.

Truculento il ras prepara

la solenne spedizione,

mette in punto la masnada

con pugnale e con bastone,

 

e gridando ed uccidendo

corre il misero paese:

tace innanzi a quella furia

il prefetto assai cortese.

 

E parola non fa il Truce,

che fra nuvole d'incenso

mira lieto e soddisfatto'

quelle ondate di consenso.

 

Quando ei vuole, ad un suo cenno

la milizia accorre armata:

va, col teschio sulla trippa,

va la fosca mascherata:

nelle case e negli uffici

entra e, come fosser ceci,

gli allibiti cittadini

manganella a dieci a dieci,

o un purgante lor propina,

poi che pensa che l'Idea

si disperda dalla pancia

grazie a un colpo di diarrea.

O Vittorio Emanuele,

faccia ed anima cattiva,

manutengolo, di ladri,

di cui gongoli ag1i «evviva »,

 

manutengolo di ladri,

di briganti e di lenoni,

scaccia via, finché n'hai tempo;

scaccia via questi bricconi!

 

o un bel giorno, finalmente,

sul porton del Quirinale

scriveremo con il sangue

questa epigrafe fatale:

 

«Lanciò a te, Vittorio terzo,

che il fascismo hai preso a scherzo,

dal lombardo al siciliano,

una pedata il popolo italiano».

 

***

 

12 - ELOGIO DELL'IGNORANZA (1926)

 

Ho ascoltato un discorsone

che mi ha molto entusiasmato:

Benedetto è liquidato

con l'astrusa erudizione.

 

E sentendomi giocondo,

spiritoso e intransigente,

lodar voglio apertamente

tutti gli asini del mondo.

Il padrone ci ha avvertiti,

con la solita burbanza,

che l'Italia n'ha abbastanza

di filosofi eruditi :

 

per l'impero degli stracci

basterà più che ad usura

la dinamica cultura

del guerriero Farinacci.

 

Getti il libro di latino

il balilla battagliero

e prepari il nuovo impero

con la spada e col frustino!

 

Viva il duce tutto far

che i filosofi non vuole!

Se abolissimo le scuole,

come usavano gli zar?

 

Ché se, quando lo s'imbroglia,

l'ignorante non capisce,

non appena s'erudisce,

mangia subito la foglia

 

e, per legge, a perdifiato

pur gridando contro Croce,

dirà, forse, sottovoce:

- Mussolini m'ha fregato!

 

***

 

13 - AVVENTUROSA (1927)

« Amare il rischio» ARNALDO MUSSOLINI

 

Scrive il Fratello, il Grande Illuminato:

«La nostra gioventù,simile a un gregge,

oggi non sogna che una laurea in legge

ed un impiego al soldo dello stato,

 

così che la Penisola è gremita

di gente dal miraggio, a fin di mese,

di mille lire lorde, ivi comprese

le indennità di prole e carovita ».

 

Orsù, travetto senza fede alcuna,

iniezioni d'audacia alle tue vene!

Non vedi a, quanta gente è andata bene?

Via dall'ufficio muffo, a far fortuna!

 

Impiegatuccio pallido, che sai

lontano un miglio di mancati pranzi,

con il didietro logoro e dinanzi

il ventisette che non giunge mai,

 

che senza quell'impiego, oggi, in un vicolo

ti troveresti ad annaspar nel vuoto,

ti scuota l'ansia del domani ignoto,

t'affascini il dinamico pericolo!

 

La n uova Italia (quarta? quinta? sesta?)

l'avventuroso rischio ebbe per sprone:

nacque la nuova età dal Rubicone ...

attraversato col diretto in testa.

 

Vogliamo cuori ardenti e facce toste,

cervelli ardimentosi, animi saldi:

avete visto mai Filippo Naldi

marcire in un ufficio delle Imposte?

 

Accarezziamo un sogno avventuriero,

che ci sottragga a un avvenire scia1bo:

avete mai veduto Italo Balbo

far l'archivista in qualche Ministero?

 

Né s'impiegò Benito a un tanto al mese,

a languire di noia e d'etisia,

ma crebbe ai rischi dell' acrobazia,

ed oggi è il proprietario del paese ...

 

Onde ben dice Arnaldo da Milano:

« Lascia la legge e lascia la prudenza!

Abbiamo già poltroni a sufficienza:

solo chi rischia può arrivar lontano ».

Peccato che il consiglio sia di ieri!

Diversamente, avremmo annoverato,

invece di qualche asino avvocato,

qualche asino di più fra gl'ingegneri.

Del resto, tanto val l'avvocatura

quanto l'ingegneria, quando c'è l'estro:

c'è chi, con un diploma di maestro,

oggi aspira a un impero addirittura ...

 

Da quella scuola, in cui, senza coraggio,

curvi sui libri il macilento dorso

e inconsciamente già sogni un concorso

per la segreteria del tuo villaggio,

 

ascolta, dunque, il monito profondo,

mite balil1a, e appresta il cuore saldo!

Gabriel lo disse e lo ripete Arnaldo:

«Arma la prora e salpa verso il mondo! »

 

In quanto a me, che ho sempre amato il rischio,

mi faccio forte dell'ammonimento:

in questo scuro mar vo contro vento

e - vi par poco in questi tempi? - fischio.


***


14 - ANNO DECIMO (1932)

 

Il Truce, sempre nuovo e sempre vario,

ha rubato il mestiere a Barbanera

e già per l'anno decimo dell'Era

ha compilato il nuovo calendario.

Sono previste tutte le disgrazie:

le parate, i comizi ed i sermoni,

e le superbe tappe, e i canti e i suoni

di cui da tempo abbiam le tasche sazie.

 

Gonfio di gloria, turbina il Destino;

ed ogni cosa avrà la sua battaglia:

il grano, il pepe, il sedano, la paglia,

la sega circolare e il «bruscolino»

(ma la battaglia è una ed è d'ogni ora,

e la combatte il popolo che pena:

la battaglia col pranzo e con la cena,

quella battaglia che il gerarca ignora).

Nuove città saranno edificate,

tutte, s'intende, su quadrati solchi,

dove, felici, gl'itali bifolchi

troveran delle Americhe insperate.

Vedremo radunarsi il Gran Consiglio,

che già la fame ed il silenzio ha imposto

e imporrà l'entusiasmo ad ogni costo,

sopprimendo per legge lo sbadiglio.

 

S'aduneran sugl'ibridi bivacchi

deliquenti precoci e giovinette,

simbolico connubio che promette

futura prole di novelli Gracchi.

 

Ad ogni anniversario, in nuova luce,

con adunate e crapule oratorie,

saran poste via via le antiche glorie,

merito anch'esse dell'invitto duce.

 

E assisteremo al nobile fervore

d'un'austera adunata sul Gianicolo:

all'eroe dei due mondi c'è il pericolo

che sia data la tessera d'onore,

 

perché venga anche lui messo alla gogna,

fulminator di preti e di ribaldi:

forse, nel bronzo, vecchio Garibaldi,

ti vedremo arrossir dalla vergogna!...

 

***


15 - L'EROE DELLA MARCIA (Parigi 1934)

(In risposta a un giornale romano dell'epoca

che bandiva un concorso per un concorso

che esaltasse le imprese del fascismo.)

 

In fondo, non era che un basso tribuno

- le guance emaciate da un lungo digiuno -

­che già sull'« A vanti! » batteva moneta,

posando a profeta - di Marx e Sorel.

In fondo, non era che il figlio d'un fabbro,

dal fegato guasto, dal livido labbro,

che, smessa la forgia, col braccio gagliardo

linciava beffardo - la patria ed il ciel.

La guerra di Libia lo trova che svelle

binari di treni con gesto ribelle

ed agita il rosso stendardo dei vindici ...

Fin quando, nel quindici, - bandiera mutò:

 

un ricco milione di marca francese

l'amore di patria nel petto gli accese,

sicch'egli, a motivo del salvadanaio,

fu il guerrafondaio - che più strepitò.

 

A guerra finita, col solito stile

promise all'Italia la guerra civile;

e a Roma lo volle Vittorio Savoia,

pensando che un boia - giovasse ad un re;

 

mentr'era a Milano, già pronto a fuggire,

gli giunse inatteso l'invito del sire:

salito su un treno, gridò 1'« alea jacta»

e al posto di Facta - tranquillo sedé.

 

L'aurata feluca di primo ministro

si pose sul Capo con piglio sinistro,

giurando ai suoi fidi, più ignoti che illustri:

« Per dodici lustri ne avrà lo Stival »

 

A Roma, trionfante, da tutte le porte

la sagra irrompeva dei teschi di morte,

al motto imperiale di « chi se ne frega? »,

che ornò la bottega - del nuovo ideal.

 

Col teschio sul ventre, su1 braccio, all'occhie1llo,

brandendo forchetta, cucchiaio e coltello,

uniti in un fascio la fame e il coraggio,

al grande arrembaggio - partì Rocambole.

 

I genii d'Italia si misero all'opra:

le scuole in subbuglio,le strade sossopra;

la turgida lira di « quota novanta»

succhiata ed infranta: - l'impero lo vuol!

 

Dei secoli andati la bo1sa retorica

fu posta al servizio d'un' epoca « storica»,

con tutte le glorie, nonché le leggende

mediocri o stupende - di cento città;

 

 

ed oggi per tutte le strade tranquilla:

i bimbi d'Italia si chiaman Balilla,

fra ondate incomposte di canti, di suoni,

di ferree légioni, - d'ardenti « alalà ».

 

Intanto, incensato, tra i fumi dell'orgia,

il fiero pagliaccio ritrova la forgia,

battendo il martello del fabbro ferraio

sul fragile acciaio - del nostro destin;

e, mentre il martello nel vuoto rimbomba,

l'atroce tiranno prepara la tomba

a un popolo opprèsso che, simile a un gregge,

lo applaude per legge, - tranquillo e supin.

 

E questo sarebbe l'impero di Roma?

dell'Urbe che vince? dell'Urbe che doma?

E questo cialtrone di pessimo gusto,

l'erede d'Augusto? Vogliamo scherzar!

Di Roma, tra questa caligine opaca,

rimane soltanto la Grande Cloaca

(ed anche, può darsi, la Rupe Tarpea,

se l'ira plebea - dovesse scoppiar).

 

***


16 - IL SILLABARIO FASCISTA


Fin l'innocuo sillabario

il fascismo trasformò,

con un tono autoritario,

truculento anzichenò,

esaltando con impegno

l'armi, il fegato, il furor,

perché il bimbo fosse degno

de1l'impero marciator

 

e, compiuti i dodici anni,

col fucile nelle mani,

sconfiggesse i rei Britanni,

Franchi, Russi e Americani,

 

ed i Cafri, i Samoiedi,

gli Ottentotti ed i Niam-Niam

soggiogasse su due piedi:

su, marciam, marciam, marciam!

***

L'asinello pacifista

fu scalzato, ahimé, nell'a

da un ardito avanguardista

che gridava un alalà.

 

Nella b, del mite bue

non l'immagine tranquilla:

una bomba, ed anche due,

lancia intrepido un balilla.

 

Nella c, dove abbaiava

un cagnuolo spelacchiato,

dominarono la clava,

il cannone e il carro armato.

 

Dove il dado taverniero

Nella d vedevi in luce,

con cipiglio ardito e fiero

troneggiò l'invitto duce,

 

Dove usava un elefante

sonnecchiar pei fatti suoi,

ritrovavi, ognor marciante,

un esercito d'eroi.

 

Ed il posto del fanale,

o di un umile fienile,

ben più energico e marziale

prese un fante col fucile.

 

Non più un gatto il dorso inarca

o si stira di piacere,

ma va in guerra un gran gerarca,

diventato granatiere.

 

Non più ahi!, non la vigliacca

e volgare esc1amazione,

bensì un Hitler, che, nell'acca,

fa del mondo un sol boccone.

 

Non l'Italia al naturale

più nell'i vedevi in mostra,

ma l'impero più imperiale

che sia stato all'età nostra.

Libro? Ohibò! Nel sillabario,

con terrore delle mamme,

un feroce legionario

maneggiava un lanciafiamme.

 

Nè una mamma, come ieri,

sorrideva al suo bambino:

mitra, mas e moschettieri

violentavano il destino.

 

Non il nano, non il nonno

l'enne illustri all'uso antico,

ma una nave guasti il sonno

al britannico nemico!

 

Battaglieri ad ogni costo

sian l'alunno e l'insegnante!

Così, l'oca cedé il posto

ad un obice tonante.

 

Non più papere incruente,

non più pane, pepe, Puglia:

alla pugna, come niente,

balzò un' epica pattuglia.

 

Nella q, nemmen per fallo

un bel quadro o un vil quaderno:

un quadrumviro a cavallo

somigliava a un padreterno.

 

Non più il querulo schiamazzo

d'una timida ranella;

e, se ancor c'era un ragazzo,

ebbe in man la rivoltella.

 

Non più il sol ridente e caldo

nell' azzurro immenso e puro:

un SS irto e spavaldo

con la spada e col siluro.

 

Nella t del topolino

si smarrì perfin l'idea:

tromba al collo, un fiero alpino

vigilava una trincea:

 

L'uva? L'uovo? un vago uccello?...

Con in mano un brando enorme,

mostra l'unghie a questo e a quello

un'Italia in uniforme.

 

La violetta evanescente

spari innanzi a tanta gloria:

un velivolo potente

conquistava la vittoria.

 

Né si tenne in alcun conto

più la zappa o lo zio Sam,

ma lo zaino sempre pronto:

su, marciam, marciam, marciam!

 

 

 

§§§§

 

I TEMPI DELLA BARBA FINTA


17 - PICCOLA ODISSEA DI UN POETA

 

Su un antico giornale milanese

scrivevo delle« Cronache » rimate;

e c'eran già i tedeschi nel paese,

quando, per una svista, (immaginate!)

su quel giornale, in bella luce usciva

questa strofetta candida e giuliva :

 

« L'otto settembre sera, all'improvviso,

ha annunziato il governo nazionale,

con un messaggio semplice e conciso,

che la guerra è perduta: era fatale.

Ma l'empia truffa e la follia littoria

son terminate: è sempre una vittoria! »

 

E viceversa, ahimé!, truffa e follia,

risfoderando «l'ideale sacro »,

balzavan nuovamente sulla via,

avide di vendetta e di massacro;

sugl'inermi balzavan risoluti

i masnadieri della Squadra Muti.

 

Un giorno, per telefono, una voce

m'avverte che una visita è imminente.

Miei cari amici, Achille il piè-veloce

non corse mai così velocemente

com'io corsi quel giorno. E me la squaglio

con una borsa: è tutto il mio bagaglio.

Incominciò la piccola odissea:

per diciassette mesi andai randagio

con due figlioli e con la moglie ebrea,

nudi, come scampati da un naufragio,

cercando i più remoti nascondigli :

con la moglie giudaica e con due figli! ...

 

Trascorsi il primo inverno nella stanza

d'un suddito boemo, in Via Bocconi

(bocconi magri) e nella latitanza,

solo e recluso, per sei mesi buoni,

sprovvisto d'ogni tessera annonaria,

vissi di pane e, soprattutto, d'aria.

 

Ed ecco, un comitato clandestino,

un giorno, mi procura l'invocata

carta ,d'identità: fui cittadino

d'un borgo dell'Italia liberata

e, divenuto allor Negri Giordano,

m'avventurai nel centro di Milano,

 

con una lunga barba, alquanto grigia,

che mi scendeva quasi fino al petto

e che nei tram, in mezzo al pigia-pigia,

mi conquistava il pubblico rispetto,

tanto più che, appoggiato ad un bastone,

sembravo pronto per l'estrema unzione.

 

Nel luglio, mentre il «perfido invasore»

s'avvicinava, stanco e macilento

mi spaccio per un profugo: il pittore

Paolo Gagliardi, nato ad Agrigento,

scampato da Firenze con i suoi

all'empio giogo inglese. Oh, i quattro eroi! ...

 

L'Ente assistenza profughi ci accoglie,

ci munisce di tessere e di carte,

non sospettando le mentite spoglie

sotto cui vive quel cultor dell'arte.

- All'alloggio - gli dico - ho provveduto -

­Gli soffio mille lire e lo saluto.

 

Un tribunale, poi, fra i più arrabbiati

m'affibbia dodici anni di prigione,

che aggiunti ad altri sedici, arretrati,

fanno ventotto in tutto: oh, che sprecone! ...

Ma l'arrivo anglo-sassone è imminente:

Rimini è presa! E scrivo al presidente:

 

« M'avete condannato a ventott'anni,

ma non è detto già che li farò,

perché il tempo dei duci e dei tiranni

durerà ancor due decadi, sì e no.

Ho in mente, signor mio, che prima o poi

quei ventott'anni li farete voi ».

Due decadi? Macché ! ... Se voi sapeste

l'inverno che passai nel nascondiglio

avuto poi! Due camere modeste

lungo l'Alzaia Grande del Naviglio,

senza coperte, senza vetri e luce.

Ma lo sapevo: morrà prima il duce!...

 

Vivevo traducendo dei romanzi

e compiangendo chi li avrebbe letti,

o sbadigliando sui mancati pranzi

e liberando i moccoli più abbietti,

o sfogliando le prime margherite:

« Alleati, venite? non venite?:. ».

 

E un giorno al Gruppo Stampa socialista

mi dan l'annunzio: partono i tedeschi,

giungono i nostri, Moscatelli è in vista

ed i repubblichini ora stan freschi...

Il giorno dopo, andavo per Milano,

la fascia al braccio e la pistola in mano.

E in cuore ... Oh, in cuor! Cedeva dei tiranni

la follia sanguinosa e disperata:

era l'aurora attesa da vent'anni,

era la libertà riconquistata,

era la vita stessa. Il duce è morto

(per sempre, questa volta) ; io son risorto.

 

***


18 - VENT'ANNI DOPO (25 luglio 1943)

 

Vent'anni! Ci spacciarono per gloria

e per supreme leggi della vita

la schiavitù, la pacchia e la baldoria:

la sconcia mascherata oggi è finita.

La libertà, quest'unico tesoro,

che solo a poche bestie Dio rifiuta,

come nel Medio Evo ebbe da loro

la carta gialla della prostituta.

 

Giorno per giorno, con la fronte china

dietro le sbarre d'una vil galera,

assistemmo in silenzio alla rapina,

dissimulata dietro una bandiera;

 

assistemmo, nel tragico abominio,

stretti alla gola da un sinistro cappio,

all'opera di morte e di sterminio

che preparava il fabbro di Predappio.

L'antico impero, con cattivo gusto,

fu scimmiottato fra un clangor di trombe:

or, se Dio vuole, Cesare ed Augusto

riposeranno nelle loro tombe,

 

ora ch'è consumato il vilipendio

che volle il Truce dalla fosca grinta

e nel bagliore d'un immane incendio

brucian le spoglie dell'Italia vinta.

 

Che questa patria a noi faccia ritorno,

anche se sanguinante e mutilata!

La rifaremo; e canteremo un giorno

una grande canzone ancor non nata.

 

***


19 - SOGNO DI UNA NOTTE D'ESTATE

(dopo l'8 settembre)

 

Mi svegliarono a un tratto, in una mite

notte di fine luglio, ebbra di stelle :

il tonfo sordo del tiranno imbelle

caduto empiva il mondo. Udite, udite!

 

Stretto è nei ceppi il livido pirata,

delle sventure nostre il sommo artefice,

che d'infamia marchiò come un carnefice

la nostra giovinezza disperata ...

Mi sentii come sollevato in cima

ad una nube, attonito, leggero,

gaio, felice, senza alcun pensiero,

come il ragazzo di vent'anni prima.

 

Uscii con altri sulla via: la folla,

l'abbietta folla che per ventun anno

aveva alzato al lugubre tiranno

urli di fede da ogni oscura zolla

di questa nostra terra, l'abbrutita

folla del « duce! duce! duce! duce! »

or, nel prodigio d'una nuova luce,

risorrideva al sole della vita.

Oh, il sole, il sole in quella mattinata

di luglio, il sole dei vent'anni, il sole

della gloria! Indicibili parole

d'una lingua dolcissima e obliata

 

risonavan nell'aria in nuovi evviva

di libertà, di fede, di riscossa:

era, l'aurora, una camicia rossa

che alla rinata Italia il cielo offriva.

 

La gente si strappava a cuor giocondo

il segno dell'infamia, del macello,

della menzogna dal consunto occhiello

e lo schiacciava come insetto immondo...

Non furono che pochi attimi, vissuti

in un sogno sereno e appassionato:

oggi, io son qui nascosto, ricercato

dai giustizieri della « Squadra Muti ».

 

***


20 - L'ULTIMO ATTO

 

Ed anche il terzo fra cotanto senno

è sistemato: senza karakiri ...

Triboli e ambasce, moccoli e sospiri,

tutto è finito; e sia lodato il Tenno,

 

Figlio del Cielo, Dio dei samurai,

onnipotente in pace, invitto in guerra

(in questi tempi, i padreterni in terra

stanno passando l'anima dei guai! ... ).

 

Tutto era grande, grande a dismisura:

eran la terra e l'universo mondo

spazi vitali offerti a un furibondo

delirio di rapina e d'avventura:

Ora è finita. Mai l'umana boria,

nonché la prepotenza in uniforme

avevan visto un fiasco così enorme

in trentacinque secoli di storia ...

 

Una bandiera d'oro il sole inasta,

dopo il suo lungo e tenebroso eclisse;

i cavalieri dell' Apocalisse

non corrono più il mondo: oh, basta, basta!

 

Un inno di letizia e di speranza

sale dal cuore della brava gente

che sudò sangue e vede, finalmente,

la Morte sazia andarsene in vacanza,

 

mentre, dopo sei anni di congedo,

la colomba dell' Arca è di ritorno

e volge gli occhi sospettosa intorno,

temendo possan metterla allo spiedo.

 

Ma noi, dopo il passato esperimento,

speriamo che non più, come a Versaglia,

ci si darà sui campi di battaglia

fra ventun anno un nuovo appuntamento.

La vita è così breve, per sfortuna!

Perché ce la vogliamo amareggiare?

L'uranio, utilizziamolo per fare

un razzo che ci porti nella luna;

 

oppur lasciamo perdere l'uranio:

non serve a nulla! E lungo le frontiere

niente cannoni più: solo spalliere

di rose e pianticelle di geranio ...

 

Per gli onesti mortali affaticati

è del cielo, la Pace, il più bel dono.

Nella mia stanza, pochi giorni or sono,

ho riportato i mobili sfollati:

 

una stanzetta stile Novecento;

con un armadio, un letto,un tavolino

e la finestra aperta su un giardino:

è il mio spazio vitale e m'accontento.

 

***


21 - I REDUCI


Da un fosco megalomane strappati

alle lor case ed alle loro zolle,

gettati in braccio all'avventura folle,

tornano in patria tristi ed umiliati.

 

Eran partiti un di', senza esultanza,

verso una guerra inutile: non c'era

in testa ai reggimenti una bandiera

luminosa di fede e di speranza.

 

Senza canzoni, con oscuri visi,

partirono per steppe e per deserti :

non salutati, dai balconi aperti,

da una pioggia di fiori e di sorrisi,

 

come, nel sogno d'una luce d'oro,

trent'anni fa, partendo verso il Carso,

i padri ed i fratelli (e ricomparso

sembrava Garibaldi innanzi a loro).

 

E qui, dove la patria oggi è più nostra,

nelle città ferite e ancor fumanti,

qui, fra le pietre degli altari infranti,

dove il dolore innanzi a Dio si prostra,

come bimbi smarriti, anche se adulti,

tornano alle lor madri dolorose,

con sui volti emaciati le pietose

stimmate del digiuno e degl'insulti;

 

tornano i vinti nella patria vinta,

dove trovano ancor l'odio in agguato

e, spesso, un egoismo sconfinato,

che non ha fatto che mutar di tinta;

 

trovano il fuoco spento e la spettrale

fame che attende nelle case in lutto,

trovan campi riarsi e, soprattutto,

una spietata siccità morale:

 

trovano il regno delle am-lire false,

la tracotanza delle pance sazie,

di chi costrusse sulle altrui disgrazie.

E : - il sacrificio - dicono - a che valse? ..

 

Se non possiamo accoglierli in letizia,

un buon sorriso almeno li conforti,

e un pane: sono, un poco, i nostri morti

resuscitati. E chiedono giustizia.

 

***


22 - MIMETISMO


Corsero alla riscossa e alla vittoria,

vivificando come per incanto,

nel cuore della patria, dopo tanto,

la disseccata linfa della gloria.

 

Oggi, però, (son tempi scombinati)

fra tanti puri eroi scesi dai monti,

ferve il tripudio dei camaleonti,

la sagra degli eroi « mimetizzati».

 

To' to', chi si rivede! Il bel gaudente,

che frequentava i balli... clandestini,

sfidando la giustizia dei «Mutini».

Partigiano anche lui, naturalmente...

To' to' chi si rivede! L'attendista,

rimasto cautamente alla finestra,

incerto ancora fra sinistra e destra,

per metà «demo » e per metà fascista...

To' to', ma che sorprese! Il malandrino

degli angiporti della borsa nera!

Egli ha una ricevuta e la sbandiera:

ha dato per la causa un milioncino...

 

Quell'altro? è un impostor d'antico stampo,

che applaudì la repubblica-cuccagna:

ora scende anche lui dalla montagna

(che vide col binocolo da campo... ).

 

E' gente che di sacro ha solo l'osso

e che di retto ha solo l'intestino;

gente che, ligia a un placido destino,

mangia dovunque e beve a più non posso;

gente ch'è sempre in sella e nulla rischia;

che all' ora buona sa virar di prua:

oggi proclama che la patria è sua,

ma mette il sacco in salvo e se ne infischia;

 

gente che con la fede dei cocciuti

giurava sulle nuove armi segrete,

dicendo fino all'ultimo: « Vedrete!

Questione d'ore, forse ,di minuti... »,

 

e il giorno dopo, come niente fosse,

urlava per le strade di Milano,

plaudendo con fervore partigiano

al tricolore e alle coccarde rosse...

 

Ma non perciò la vita è meno bella,

non perciò sa d'amaro o è sconsacrata

la santa libertà riconquistata,

che gli oppressi d'un giorno oggi affratella.

 

E, per fortuna dell'umanità,

l'armi segrete c'erano davvero,

ma le avevamo noi, non è un mistero,

ed eran due: giustizia ed onestà.

§§§§

 

CONTRO IL NUOVO REGIME A LANIA IN RESTA

23 - REGIME

 

Si comincia cosi: lo sfollagente,

la sicurezza, l'ordine, lo Stato,

la pubblica morale; e lentamente

nasce a regime (oppur riprende fiato).

 

n clima si fa duro, intransigente;

si caccia dentro un primo deputato;

l'applauso obbligatorio al Presidente

dovranno poi la Camera e il Senato.

Messo il bavaglio al libero pensiero,

seguono con un crescendo impressionante,

la razza, il foglio d'ordine, l'Impero...

 

Fascismo? Ohibò! Lontana, arcaica voce.

Questa è « democrazia ». sacra, operante

All'ombra della mitria e della croce.

 

***


24 -LO SCUDO CROCIATO

 

Al parroco Alcide,

piovuto ai ranocchi,

l'Italia sorride

piegando i ginocchi.

Lo prédico anch'io

mandato da Pio:

sia sempre lodato

lo scudo crociato!

Di Montecitorio

la grigia palude,

al sogno littorio

che intorno riprude,

soltanto si degna

mutare l'insegna:

al fascio ha applicato

lo scudo crociato.

 

Si beccano un terno

gli agrari e i banchieri:

che dolce governo!

che scacciapensieri!

Non tira a pelare,

li fa prosperare,

non turba il mercato

lo scudo crociato.

 

E il pio credulone

con fede chimerica

attende le buone

lenticchie d'America,

gridando a distesa

che, grazie alla Chiesa,

lo scudo crociato

l'Italia ha salvato.

 

Ci narra, la Storia,

d'alcuni tiranni

che han fatto baldoria

per oltre vent'anni;

ma voi non sapete

che scherzi da prete

ci fece in passato

lo scudo crociato.

Se, a furia d'inganni,

ritorna al governo

nemmeno in cent'anni

lo mandi all'inferno:

mediante una legge,

le cose corregge,

ed ecco eternato

lo scudo crociato.

Promesse, lavoro,

giustizia, ma poi...

lo scudo per loro,

la croce per noi

(s'intende che alludo,

signori, a uno « scudo »

assai più pregiato

di quello crociato).

 

***


25 - SEMPRE PREGHIERE

 

Alle classiche preghiere

d'una volta - Avemaria,

Paternostro, Miserere,

Gloria patri e così via -

 

ora un'altra se n'è aggiunta,

con il « visto » episcopale,

molto fervida e compunta:

la preghiera elettorale.

Si rivolge al Sacro Cuore

con accenti appassionati,

perché il popolo elettore

scelga bene i candidati

 

e benigno Dio conceda,

in quest'epoca feroce,

la vittoria a quella scheda

che s'adorna d'una croce.

 

Ne risulta che il devoto,

se con animo deciso

darà al parroco il suo voto,

avrà in premio il Paradiso,

mentre l'empio sconsigliato

deve attendersi l'Inferno,

se per poco sia tentato

di votar contro il governo.

 

Coltivando l'ignoranza

coltivando il fanatismo,

c'è pur sempre la speranza

di stroncare il socialismo.

Ecco quindi il prete all'opra

Con i soliti argomenti:

un'Italia sottosopra,

in balia dei miscredenti,

 

i più lugubri presagi,

le promesse più leggiadre,

perché vadano i suffragi

tutti quanti al Santo Padre,

 

perché possa don Alcide,

con maniere autoritarie,

rintuzzar le atroci sfide

progressive e proletarie,

 

perché almeno quattrocento

deputati democristi

possan fare in Parlamento

l'agognato repulisti,

 

e vi possano risiedere,

senza noie, in permanenza,

anche a costo di concedere

ogni giorno un'indulgenza.

 

Per chi mangia, per chi specula,

che bellezza, che allegria

restar li per omnia saecula

saeculorum! Cosi sia.

 

***


26 - I REGALI DELLA BEFANA

 

Il pargoletto Alcide alla Befana

chiede trecentottanta burattini,

che bevano tranquilli ogni panzana,

sempre pronti a far « si » con begl'inchini,

perch'egli possa dir tutto contento:

Oh, questo si ch'è un vero... , Parlamento! ».

 

Il frugolo Pacciardi, un po' sbruffone,

resta ancorato ai vecchi soldatini:

che questi sian di latta o di cartone,

non ha importanza per i propri fini;

«stanco », « colonnello » ed avamposto,

vuol giocare alla guerra ad ogni costo...

Scelbino, ch'è un ragazzo prepotente,

dai modi un po' mafiosi e poco urbani,

vorrebbe un catenaccio solamente

per chiudere la bocca agl'italiani.

Ma non lo sai che questi, anima illusa,

san far pernacchi pure a bocca chiusa?...

 

A Saragat e al piccolo Romita,

i primi della classe clericale,

che già carezzan la poltrona ambita

promessa lor per merito speciale,

daremo in premio il disco Tradimento

(senza bisogno di nessun commento).

 

***


27 - SETTE ANNI DOPO


Fra pochi giorni i nostri Partigiani

celebreranno il 25 Aprile.

Sono sette anni: ed in un mondo ostile,

che ringhia contro il mondo di domani

e del passato ancor sogna il ritorno,

c'è chi ignora o dimentica quel giorno.

 

Scomparsi i malandrini della storia

ad opera di mitra o di veleno,

nel cielo un prodigioso arcobaleno

formava come un grande arco di gloria,

sotto cui, cinti dagli stessi allori,

passavano gl'insorti e i vincitori.

 

E sognavano un mondo rinnovato,

non più diviso da barriere d'odio,

in cui la guerra fosse un episodio

sepolto negli archivi del passato

e sistemati ormai per due millenni

fossero i «duci », « fuehrer» ed i « tenni ».

E c'è nel mondo un'infima genia

che sognerebbe ancor (punto e daccapo!)

di ridar vita all'Ovra e alla Ghestàpo

sotto una veste di... democrazia

risfoderando ancor gli stivaloni

e l'aquile dorate sui bottoni.

Spesso, in teatro, dopo le tragedie,

che narran gesta splendide e sublimi,

sono di scena i divertenti mimi,

che con farsette e piccole commedie

tengono allegro il pubblico ed in coro

dicon facezie. è questo il tempo loro.

Ma noi leviamo in alto la bandiera

intorno a cui si strinsero gl'insorti

ed onoriamo ancora i nostri morti,

che non salutan più la primavera

e che dalle macerie insanguinate

ci ripetono sempre: « Ricordate! »..

 

***


28 - L'INFERNALE COMMEDIA

 

« Per seguitar la farsa tragicomica,

ora ti condurrò da un altro grande,

ch'è il detentore della bomba atomica ».

 

E mi parlò del panico che spande

l'arma ferale, e come al primo scoppio

il Tenno si cambiasse le mutande.

Indi mi disse: « è un'arma a taglio doppio,

ch'oggi brandiamo contro quel Giuseppe

Stalin ch'io spregio e che al demonio accoppio.

 

Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!

Se in questo mondo ancor io dominassi,

sarei già in marcia verso l'ardue steppe.

 

Tu dêi saper che per antica prassi

soltanto all' Inghilterra è consentito

il monopolio dei mercati grassi,

 

anche se il mondo schiavo, ormai scaltrito,

ribellarsi ved'io di giorno in giorno

e riscattarsi dal servaggio avito ».

 

Io l'ascoltavo e mi guardavo intorno,

e pensavo che il mondo è senza senno,

e pensavo che il monda è senza scorno.

 

Mentre parlava, a un'auto egli fe' cenno,

e presto fummo in quella Casa Bianca,

ove siede colui che vinse il Tenno.

Truman si chiama, e con un'aria stanca

c'indusse a prender posto accanto a lui:

Truman a destra ed io, modesto, a manca.

 

E poi ch'io vengo su da' regni bui,

per meglio indovinar chi quei si fosse,

gli domandai: « Chi fur li maggior tui? ».

 

Egli non mi guardò, ciglio non mosse,

ma con orgoglio mal dissimulato

mi rispose cosi: « Li pellirosse! ».

Non è 'l mondan rumore altro che fiato

di vento: oggi una terra, un tempo ignota,

detta sua legge al mondo liquidato,

mentre quel grande dalla testa vuota

in ansia tiene i miseri Europei,

che affondan sempre più nella lor mota!

Ma mi distrasse da' pensieri miei

Truman, a cui da un'ora ero vicino

e mi chiese ad un tratto: «E tu, chi sei? ».

Poi, nell'apprender ch'ero un fiorentino

(un italiano!), con pietà romantica

chiamò un usciere e m'involtò un panino

nei pochi resti della Carta atlantica.

 

***


29 - BOMBE E DEMOCRAZIA

 

(Lettera aperta al Presidente degli Stati Uniti)

 

Illustre Presidente, un alienista

del vostro prosperissimo Statone

ha fatto un'importante predizione,

che ci diverte e insieme ci rattrista:

 

egli sostiene, analizzando i frutti

di questa civiltà folle ed isterica,

che i cittadini della grande America

fra duecent'anni saran pazzi tutti.

 

La vita che di strepiti rimbomba,

la meccanicità paradossale,

causerebbe un disordine mentale

che un giorno scoppierà come una bomba.

Le officine frenetiche e rombanti

son manicomi spaventosi, inferni

senza pietà: Charlot (Tempi moderni)

punzonava il sedere dei passanti,

 

invasato dal ritmo e dal fracasso

di quel lavoro in serie: un mulinello...

Voi punzonate agli uomini il cervello,

effetto del medesimo collasso!

Fra duecent'anni... In questa millenaria

Europa, a cui guardate con disprezzo;

osserverete voi che già da un pezzo

la camicia di forza è necessaria.

Ebbene, degno in questo di un encomio,

io non rubo il mestiere alla Sibilla,

ma credo che col Patto che v'assilla

andrete molto prima al manicomio.

Esattamente, alludo al Patto Atlantico,

col quale, nella vostra fantasia,

voi salverete la democrazia,

questo abusato termine romantico.

Se la pretesa può sembrar ridicola,

è invece grave: voi sognate, in fondo,

di far la pelle a questo vecchio mondo,

non di far solo più qualche... pellicola.

Fra duecent'anni? Ohimé, con quel binomio

«bombe e democrazia »?... Quell'alienista

mi sembra veramente un po' ottimista...

Amico, ci vedremo al manicomio!

 

***


30 - 1917

(7 novembre 1949)

 

Dopo secoli d'odio, in una sola

notte di gloria - or son trentadue anni -

­crollò con i suoi pope e i suoi tiranni

la Santa Russia dello zar Nicola.

 

Era un putrido mondo in isfacelo,

simile a questo in cui gli ultimi illusi

voglion perpetuare odi e soprusi

in nome della patria e del vangelo;

 

in cui contro la pace e il socialismo

una Santa Alleanza ancor congiura,

asserragliata con la sua paura

nell'ultima trincea dell'egoismo.

Ma la smagliante luce di un'Idea

sempre più avanza col passar degli anni,

ed oggi accieca gli ultimi tiranni,

che sniderà dall'ultima trincea.

 

***


31 - IL NATALE DEI POVERI

 

Ritrovo fra vecchi ideali

un serto di rime perdute:

oh, l'ore felici vissute

nei cari lontani Natali...

 

è vero,a guardarsi d'intorno,

non manca alla festa più nulla:

diffonde,la mistica culla,

la pace serena d'un giorno

 

ritornano i vecchi presepi,

si levan le lodi al Signore;

la neve, d'un bianco stupore

ricama le case e le siepi.

Eppure, non so, ci attanaglia

l'angoscia d'un'ansia irrequieta;

perfino la Stella Cometa

si sente la... coda di paglia.

Nel mondo, in due parti diviso

(non parlo di Russie e d'Americhe),

il ricco le gioie chimeriche

ritrova del suo paradiso;

ma il povero è triste, ma al povero

non resta che il solito inferno:

la fame, lo squallido inverno,

talvolta nemmeno un ricovero...

 

Non fosti tu forse, Signore,

che a due delinquenti confuso

moristi sul Golgota, illuso

dal sogno d'un mondo migliore?

non tu che accogliesti gli aneliti

di tutti gli oppressi, o Gesù?

Ahimé, se tornassi quaggiù,

fra il coro dei tardi proseliti!

 

La croce la portano d'oro)

sul petto, non già sulle spalle;

e sdegnan le misere stalle,

adatte per te, non per loro:

 

loro hanno dimore stupende,

con serie d'inutili stanze,

digiunan con fini pietanze

(che chiamano «magre », s'intende).

La croce la portano gli altri,

coloro per cui tu moristi:

son sempre lì, curvi, lì, tristi,

dinanzi ai più forti, ai più scaltri.

Se uscissi, Signore, per breve

momento dai dolci presepi,

di cui son di carta le siepi,

di gesso e bambagia la neve?

Se entrassi negli umidi alloggi

dov'ha la miseria dimora?

Vedresti che il mondo d'allora

non era diverso dall'oggi.

 

E udendo i tuoi semplici accenni

a un mondo d'uguali, più d'uno

direbbe indignato: «è un tribuno,

iscritto al partito dì Nenni! »,.

 

§§§§

 

INDICE

PREFAZIONE

 

Incontri con gli eroi del tempo nostro

 

01- Il pensionato statale

02- Snob

03- Incontro con una lettrice di Liala

04- L'insegnante democristiano

05- Clark Gable

 

Incontri con gli eroi del tempo antico

 

06- Amleto

07- Otello

08- La signora dalle camelie

09- I promessi sposi

10- Madama Butterfly

 

Basta coi duci, führer e caudilli

 

11- Faida di partito

12- Elogio dell'ignoranza

13- Avventurosa

14- Anno decimo

15- L'eroe della «Marcia»

16- Il sillabario fascista

 

I tempi della barba finta


17- Piccola odissea di un poeta

18- Vent'anni dopo

19- Sogno di una notte d'estate

20- L'ultimo atto

21- I reduci

22- Mimetismo

 

Contro il nuovo regime a lancia in resta

 

23- Regime

24- Lo scudo crociato

25- Sempre preghiere

26- I regali della Befana

27- Sette anni dopo

28- L'Infernale Commedia

29- Bombe e democrazia

30- 1917

31- Il Natale dei poveri

fine



N.B.

Le rime seguenti si trovano pure nel libro SATIRE POLITICHE Edizione SONZOGNO

Basta coi duci, führer e caudilli

11- Faida di partito

12- Elogio dell'ignoranza

13- Avventurosa

14- Anno decimo

15- L'eroe della « Marcia»

16- Il sillabario fascista

I tempi della barba finta

17- Piccola odissea di un poeta

18- Vent'anni dopo

19- Sogno di una notte d'estate

20- L'ultimo atto

21- I reduci

22- Mimetismo

 



Un ringraziamento di cuore al Signor Giuseppe Amoruso, residente in Cirò Marina. Grazie alla sua "testardaggine" ed al suo certosino lavoro, di ricerca e digitalizzazione, è stato possibile divulgare questa opera ormai introvabile.